I manuali di storia antica fissano generalmente la fine dell’Impero romano al 476 dopo Cristo, quando il re dei Goti Odoacre depose l’imperatore Romolo Augustolo. Ma l’impero aveva iniziato a cadere ben prima. Iniziò tutto in Tracia, alla periferia dell’impero, tra il 376 e il 378. Un afflusso imprevisto di profughi, una catastrofe umanitaria, uno scontro violento dall’esito impensabile.
Siamo in pieno IV secolo. L’impero è saldo. Si è ripreso dalla crisi istituzionale ed economica del secolo precedente. L’economia tira, il mondo appare tranquillo. Certo, ci sono i barbari alle frontiere, ma quelli non sono un problema. Ci sono sempre stati e l’impero ha ormai imparato a gestirli. Premono per entrare, di tanto in tanto, in occasione di una carestia o di una guerra. Entrano, saccheggiano qualche fattoria romana, poi se ne tornano indietro. Quando esagerano con le scorrerie si manda qualche legione oltre il Reno oppure oltre il Danubio e si sistema brutalmente la situazione.
Ma da almeno tre secoli i romani hanno capito che questi popoli possono anche essere molto utili. Nel IV secolo l’impero romano è un territorio immenso, in molte province le campagne sono spopolate dalla crisi demografica, improduttive e sottosviluppate. D’altra parte Roma, Costantinopoli e le altre metropoli consumano risorse, e qualcuno quelle risorse deve produrle. L’impero in quel momento ha bisogno di due cose: lavoratori e soldati.
Da questo punto di vista gli immigrati barbari sono perfetti: mano d’opera a basso costo per coltivare la terra dei ricchi proprietari terrieri e reclute da fornire alle legioni per rimpinguare un esercito sempre affamato di uomini. Lo hanno già fatto con successo Traiano, Adriano, Marco Aurelio, Costantino, non c‘è ragione per non proseguire.
Roma li prende e li integra. Assegnando loro terra da coltivare, come coloni o con contratti di affitto perpetuo. Oppure con vent’anni di servizio militare nelle legioni: al congedo lo straniero, ormai del tutto romanizzato, riceve cittadinanza romana e terra da coltivare. In entrambi i casi, di fatto, già dopo pochi anni diventano romani a tutti gli effetti. Del resto questi barbari così minacciosi non chiedono altro.
L’idea che accogliere e integrare questa enorme forza lavoro sia più conveniente che impiegare uomini e risorse per respingerli o sterminarli è ormai ampiamente condivisa. Sentite Temistio, un retore del IV secolo, con quali argomenti rifiuta l’idea di respingere con la forza i Goti oltre le frontiere:
«Forse sarebbe meglio riempire la Tracia di cadaveri piuttosto che di contadini? Non vedete che già i barbari trasformano le loro armi in zappe e falci e arano i loro campi? Non vi ricordate quante volte abbiamo già fatto entrare tra noi altri popoli e oggi nessuno si ricorda che un giorno erano barbari? Guardate i Galati, sistemati in Asia Minore tanto tempo fa. Non possono più essere chiamati barbari. Sono a tutti gli effetti Romani. Pagano le stesse nostre tasse servono con noi nell’esercito; sono amministrati secondo lo stesso statuto degli altri, sottomessi alle stesse leggi. E la stessa cosa tra poco accadrà ai Goti».
Certo, la popolazione li guarda spesso con diffidenza; del resto è gente strana, diversa, ha la pelle chiara e i capelli biondi. Che tuttavia non chiede altro che integrarsi, di partecipare a un modo di vita certamente più allettante del nomadismo per le steppe. In una parola: di diventare romani. Alcuni, i più svegli, fanno carriera, soprattutto nell’esercito; e certo da questo processo la composizione sociale delle città di provincia esce profondamente modificata, suscitando talvolta reazioni di rigetto. Ecco Sinesio, un ricco latifondista nordafricano:
«Solo un pazzo potrebbe non aver paura, vedendo tutti questi giovani cresciuti all’estero, e che continuano a vivere secondo le loro abitudini, incaricati di gestire l’attività militare nel paese».
Ciò d’altra parte non impedisce allo stesso Sinesio di servirsi di immigrati Unni per sorvegliare i propri campi e di dichiararsi anzi entusiasta dei loro servizi. E di proseguire così:
«Qualunque famiglia, che goda anche solo di un po’ di benessere, ha lo schiavo goto; in tutte le case sono goti quello che prepara la tavola, quello che si occupa del forno, quello che porta l’anfora; e fra gli schiavi accompagnatori, quelli che si caricano sulle spalle gli sgabelli pieghevoli su cui i padroni possono sedere per strada, sono tutti Goti».
Insomma, in fondo questi immigrati barbari sono una benedizione anche e soprattutto per chi, quasi per un riflesso condizionato, li disprezza e finge di temerli.
Del resto sono undici secoli che Roma accoglie e integra stranieri. Enea, il capostipite, non era forse egli stesso un profugo scampato alla guerra di Troia? E i re Tarquini? Non erano forse stranieri venuti a Roma in cerca di fortuna? Se c‘è un tratto distintivo di Roma, e per molti versi la ragione della sua fortuna, è proprio questo: accogliere e integrare gli stranieri. La romanità di ciascuno, in un impero che si vuole universale e globalizzato non ha nulla a che vedere con l’etnia.
Le classi dirigenti ne sono ben consapevoli, lo rivendicano con orgoglio, perfino: quando l’imperatore Claudio decide di far entrare nel Senato alcuni Galli Senoni, da poco sconfitti in guerra, il suo discorso richiama proprio questo argomento, l’irrilevanza della consanguinitas, cioè dell’etnia:
«La mia famiglia viene dalla Sabina, il mio antenato Clausus il giorno stesso in cui ebbe la cittadinanza romana fu accolto anche nel patriziato».
E ancora:
«Cosa credete che abbia decretato la rovina di Atene e di Sparta? Il fatto che esse, sebbene fossero molto forti sul piano militare, respingevano i vinti in quanto stranieri. Romolo, invece, è stato così saggio da considerare immediatamente cittadini anche i popoli stranieri appena sottomessi».
Si arriva al 212 d.C., e l’imperatore Caracalla emana la Constitutio Antoniniana, qualcosa di più di una sanatoria: da un giorno all’altro praticamente tutti gli abitanti di ogni provincia dell’impero ricevono la cittadinanza romana. Diventano cittadini romani a tutti gli effetti. Ancora a distanza di secoli intellettuali come sant’Agostino e Rutilio Namaziano parlano di quell’atto politico come di una «decisione gratissima e umanissima» e lodano l’imperatore «per aver dato un’unica cittadinanza a popoli diversi».
La situazione non deve sembrare del tutto inusuale, dunque, nel 376, quando un’ondata di profughi Goti si riversa alle frontiere dell’impero, sulle sponde orientali del Danubio. Sono uomini e donne terrorizzati dagli Unni, un popolo nomade e guerriero che ha preso a devastare le loro terre. I Goti stanno fuggendo dalla guerra, abbandonano le proprie case, si ammassano alle frontiere dell’impero e chiedono di entrare.
Con i Goti già da cinquant’anni è in vigore un accordo diplomatico che ne regola i flussi di ingresso, e bene o male ha sempre funzionato; per il resto l’impero ha strutture amministrative deputate espressamente a questo: gestire l’afflusso dei barbari, decidere di volta in volta le quote di ingresso, negoziarle con i capi delle tribù, assegnare agli immigrati terre o indirizzarli all’esercito. È una prassi ormai consolidata. Funziona. Ha sempre funzionato. Gli ufficiali dell’impero, anzi, si fregano le mani per quell’insperato colpo di fortuna. Ce lo spiega Ammiano Marcellino, il maggiore storico del periodo:
«Esaltavano la fortuna del sovrano che, senza che egli se l’aspettasse, gli procurava dalle più lontane regioni tante reclute che, unendo le proprie forze a quelle straniere, avrebbe disposto di un esercito invincibile. In tal maniera invece di fornire all’esercito uomini, i latifondisti delle province avrebbero potuto inviare all’erario denaro in gran quantità. Con questa speranza furono mandati diversi funzionari incaricati di trasportare su veicoli quell’orda selvaggia».
Insomma, forza lavoro e gettito fiscale.
L’amministrazione imperiale autorizza dunque l’ingresso degli immigrati e anzi organizza essa stessa le operazioni di trasbordo. L’ordine dell’imperatore è di assegnare a ciascuna tribù che arriva una porzione di terre incolte all’interno dell’impero, e mentre queste vengono individuate e assegnate tenere i profughi in strutture di permanenza temporanea, sorvegliarli e provvedere al loro sostentamento.
Il trasporto tuttavia precede a rilento, non si riesce a far sbarcare tutti i profughi in tempi ragionevoli, anche perché più i romani ne traghettano al di qua il fiume, più da oltre il Danubio ne accorrono di nuovi. Evidentemente si è sparsa la notizia che la frontiera con l’impero è aperta e che i romani stanno facendo passare più o meno tutti.
Sempre da Ammiano:
«Venivano trasportati in schiere oltre il fiume giorno e notte su barche, zattere e tronchi d’albero scavati. Poiché il Danubio è un fiume assai pericoloso e per di più allora era in piena per le abbondanti piogge, parecchi perirono annegati mentre a causa della gran massa di gente tentavano di attraversarlo contro corrente e cercavano di nuotare».
Ma le cose non procedono come al solito: la confusione della situazione, il gran numero dei profughi, l’inettitudine e la corruzione dei funzionari romani rallentano le operazioni. Per il proprio vantaggio personale, invece di accelerare le operazioni e di indirizzare tutta quella massa di persone nei luoghi a loro assegnati, molti dei funzionari romani preferiscono temporeggiare e tenerli lì, in condizioni disumane, nell’immenso campo profughi che si è formato. Si sono accorti, infatti, che da quella situazione possono lucrare col mercato nero vendendo a quei disperati poche derrate alimentari a prezzi altissimi o in cambio di giovani Goti da rendere schiavi. Così quei centri di raccolta temporanea si riempiono e molto presto la situazione degenera a tal punto che i romani interrompono ogni forma di accoglienza, e le stesse barche con cui avevano trasportato i Goti al di qua del Danubio vengono ora utilizzate per pattugliare le rive e respingere eventuali sbarchi clandestini.
In breve tempo le strutture di accoglienza collassano ed è il caos. La fame, la pioggia, il freddo, la disorganizzazione fanno il resto. I profughi iniziano ad essere esasperati da quella situazione e tra i funzionari romani si fa avanti il presentimento che le cose possano sfuggire di mano da un momento all’altro.
In questo clima iniziano le operazioni di trasferimento di alcune tribù dal campo profughi verso la prima vera città all’interno dell’impero, Marcianopoli, destinata ad accoglierne almeno una parte. In realtà la città è del tutto impreparata a ricevere questa massa di persone. La popolazione ne è spaventata, non ha la minima intenzione di fraternizzare con questa gente e li lascia fuori dalle porte della città, senza cibo e senza alloggio.
Come se non bastasse, per motivi poco chiari, e in modo del tutto irragionevole, uno dei dirigenti imperiali pensa bene di attentare senza successo alla vita di Fritigerno, uno dei capi barbari con il quale egli stesso è riunito a banchettare e a trattare le modalità di ingresso e di stanziamento dei profughi. A quel punto ogni accordo è rotto. Esasperati da settimane ai limiti della vivibilità e vedendo delusa ogni speranza di ricevere una sistemazione e un lavoro, i profughi decidono di far da sé e di prendere con la forza ciò che non ricevono dall’amministrazione imperiale. Si danno ai saccheggi; scoppiano violenti scontri con la popolazione locale.
La situazione è ormai del tutto fuori controllo. I barbari organizzano un esercito, dapprima piccolo, poi sempre più ingente grazie all’arrivo di altri immigrati; vagano per la Tracia e saccheggiano le campagne lasciate a se stesse.
Quando l’imperatore si muove in prima persona col proprio esercito è ormai troppo tardi. Il 9 agosto del 378, presso Adrianopoli, le legioni romane affrontano l’esercito barbaro e vengono sbaragliate. L’imperatore Valente muore in battaglia. I barbari hanno ormai campo libero e devastano la Tracia.
Da quel momento, pur continuando a entrare nell’impero, i barbari smettono di integrarsi. Dall’altra parte, tra le élite romane si sviluppa un movimento di opinione antibarbarico e talvolta palesemente razzista. L’impero continua a stipulare accordi coi barbari e ad arruolarli nell’esercito ma, venuta meno ogni forma di integrazione, questi formano ormai bande autonome di mercenari sempre meno legate all’impero e alla figura dell’imperatore. Nel V secolo costituiscono regni sempre più autonomi in tutto l’occidente. Quando nel 476 il re dei Goti Odoacre depone l’imperatore Romolo Augustolo, pochi tra i contemporanei si accorgono che quella è la caduta dell’Impero romano d’occidente: di fatto l’impero era caduto cent’anni prima. Ad Adrianopoli.
In breve, finché seppe accogliere e integrare i barbari, l’impero prosperò. Quando l’integrazione fallì e si arrivò allo scontro ne nacque un mondo nuovo. E in quel mondo nuovo la peggio la ebbero i ricchi romani che si credevano privilegiati, la vecchia Europa – diremmo oggi – stanca e spaventata. Vinsero i Goti. Che erano giovani. E avevano fame.