Un’estate fa era l’estate del 2012 e la storia del Pd era un po’ come una favola. Almeno per quelli che, come noi, avevano attraversato a denti stretti la lunga stagione del berlusconismo di risulta, dei partiti leggeri e della personalizzazione della politica, del presidenzialismo di fatto e della privatizzazione delle istituzioni. Il momento della grande rivincita e della consacrazione, un’estate fa, sembrava vicinissimo, come non lo era stato mai. Ma l’estate va e porta via con sé anche il meglio delle favole.
L’estate del 2013 è ben diversa da come ce l’eravamo immaginata. Il congresso è là, ma ci dividerà: tra chi da quel che è accaduto ha ricavato la convinzione di avere sempre sbagliato tutto e chi ne ha tratto la conclusione di avere sempre avuto ragione, persino su quello che non ha nemmeno provato a fare quando ne aveva la possibilità. Tra chi tenta di reagire, riorganizzarsi e difendere come può quel poco o tanto che resta ancora da difendere e chi, legittimamente, non ne vuole più sapere. Sono cose che succedono.
Segni premonitori di quello che sarebbe accaduto, a volerli vedere, non erano mancati. Giusto all’inizio dell’estate scorsa, alla direzione dell’8 giugno, Pier Luigi Bersani ribadiva l’intenzione di sostenere il governo Monti fino alla fine della legislatura, chiudendo definitivamente la porta a ogni ipotesi di voto anticipato (come aveva chiesto ancora in quei giorni Stefano Fassina), e annunciava primarie aperte entro l’anno. Per completare il quadro bisogna ricordare che la riforma della legge elettorale era appena saltata (anche per la contrarietà del Pd al ripristino delle preferenze e a un premio di maggioranza considerato troppo basso) e che sempre in quei giorni si sarebbe definita la nuova linea sul cda Rai, con la decisione di eleggere due esponenti della “società civile” (anche per far dimenticare l’esponente della corrente franceschiniana appena eletto garante della privacy).
Bastava unire i puntini per ottenere già allora un quadro molto diverso dalla piattaforma con cui Bersani era stato eletto al congresso del 2009. O forse semplicemente dalla piattaforma che noi avevamo voluto vedere, ma dalla quale, in verità, Bersani aveva cominciato a segnare le distanze ben prima dell’anno scorso. Noi stessi qui lo notammo polemicamente. Ed era il 31 ottobre del 2010. Dunque abbiamo poco da recriminare, se oggi nel Pd si torna a parlare di partito leggero, fondato sulle primarie e sulle leadership carismatiche, dipendente esclusivamente dal finanziamento privato e dalla benevolenza dei grandi mezzi di comunicazione. Se si torna a parlare di spirito del maggioritario e presidenzialismo, invece che di bilanciamento dei poteri e centralità del parlamento. Se si torna a parlare di un modello politico, istituzionale e di partito che è l’esatto opposto di quanto avevamo teorizzato, ma che è al tempo stesso figlio legittimo delle scelte concrete di questi anni.
Un’estate fa non c’era che il Partito democratico, ma l’estate somiglia a un gioco. E l’autunno del 2013 rischia di regalare ai militanti un congresso malinconico. Eppure il Pd rimane il primo partito del paese, la sua più grande forza politica. La principale leva a disposizione di ciascuno di noi per cambiare l’Italia. E anche per cambiare la sinistra. Certo, dopo tutto quello che è accaduto tra la direzione dell’8 giugno 2012 e la direzione di oggi, la discussione su date e regole congressuali appare paradossale. I buoi sono scappati. Ma riconoscere i propri errori serve a non ripeterli. E se una lezione si può trarre da tutto questo è che le battaglie politiche si danno in campo aperto, altrimenti è meglio non darle affatto. Tentando di restringere oggi ai soli iscritti la possibilità di partecipare alle primarie il gruppo dirigente del Pd non fa che svilire una posizione politica che meriterebbe di essere sostenuta apertamente nella battaglia congressuale, degradandola a espediente tattico.
Il principio secondo cui il segretario di un partito lo eleggono i suoi iscritti è sacrosanto e avrebbe dovuto essere già regola, da almeno quattro anni. Ma quello che non è stato fatto all’indomani di una battaglia esplicita e dura, nel congresso del 2009 che vide prevalere Bersani e la linea del “partito solido”, non può essere fatto oggi sottobanco, dopo che per quattro anni si è scelto di fare l’esatto opposto. La battaglia politica che non si è voluta dare ieri va data oggi, con coraggio e con coerenza. Per cambiare questo modello di partito bisogna prima vincere il congresso, con le relative primarie. Ogni altro sotterfugio non farebbe che indebolire una posizione politica e un’idea di partito che non meritano di essere accomunate a escamotage precongressuali e manovre di corto respiro.