Come accadde per tutte le famiglie culturali e politiche del Novecento italiano, anche il modo in cui i cattolici contribuirono alla costruzione dell’Italia repubblicana dipese da un insieme di fattori non solo ideologici e politici, ma anche esistenziali. Il lento e faticoso approdo alla democrazia avrebbe potuto rimanere un approdo solo intellettuale o, peggio, solo strumentale, se anche dei cattolici non avessero patito, durante il ventennio fascista, l’esilio e il carcere, la violenza squadrista e talvolta la morte, e poi, durante la guerra, l’internamento e la lotta partigiana.
Quando Alcide De Gasperi ritorna, così insistentemente, sull’importanza del “metodo della libertà” nella vita politica e culturale, sul dovere di rispettare non solo le idee che si ritengono vere ma anche le idee altrui, sull’impossibilità di ricorrere alle misure coercitive nell’ambito della vita spirituale sia essa artistica, religiosa o politica, è difficile non sentire, dietro quell’espressione, la dolorosa esperienza della privazione della libertà, patita nel carcere di Regina Coeli. Un’esperienza resa ancor più amara dal vedere, quasi da dietro le sbarre, la gerarchia ecclesiastica, di cui era stato fedele collaboratore, riconciliarsi nel Concordato con quel regime liberticida che aveva spinto lui in prigione e Sturzo e altri popolari in esilio e don Minzoni a morte. Vi era stata poi l’esperienza dell’occupazione nazista: doppia privazione di libertà, perché derivante da truppe straniere e perché portatrici di un regime ancor più totalitario di quello fascista.
Così quando si ritrova nei discorsi e nei documenti preparatori della fase costituzionale l’espressione “non l’uomo per lo stato, ma lo stato per l’uomo”, ricorrente nei fogli resistenziali, si avverte certo l’influenza della scoperta cristiana dei diritti dell’uomo nel costituzionalismo cristiano di Rosmini, nell’etica sociale dei teologi tedeschi come nella filosofia francese di un Maritain, ma si avverte anche l’esperienza dei totalitarismi che avevano esaltato lo stato totale e ridotto l’essere umano a mero esemplare di una specie animale da addestrare e riprodurre nella versione ritenuta più pura ai fini dell’esaltazione della potenza statale o razziale. Si avverte sullo sfondo l’esperienza della disumanizzazione a opera della macchina dello stato che trovava nell’universo concentrazionario la sua espressione demoniaca e il suo prodotto: l’uomo ridotto al non uomo, al “se questo è un uomo” che Primo Levi avrebbe raccontato.
Fu anche questa esperienza a spingere in direzione liberale, democratica e antifascista la guida politica dei cattolici italiani, in contrasto con quanti, soprattutto nella gerarchia ecclesiastica, avrebbero preferito, dopo la caduta del fascismo, una nuova riedizione dell’alleanza fra trono e altare e dunque un qualche regime di “stato cristiano”, paternalista e autoritario. La prima elaborazione di modelli costituzionali da parte dei cattolici democratici negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale lo dimostra: basta leggere le Idee ricostruttive di De Gasperi, i documenti di Malvestiti, i fogli resistenziali delle formazioni partigiane da Olivelli a Dossetti o il Codice di Camaldoli per rendersene conto.
In queste riflessioni si ritrova anzitutto l’affermazione della centralità della persona umana rispetto allo stato, il rispetto per la sua dignità infinita e il riconoscimento del carattere inalienabile dei suoi diritti fondamentali. In questo rifiuto della riduzione della persona a cosa, a strumento, e nell’affermazione del suo valore assoluto in quanto realtà avente il proprio fine in se stessa e dunque degna di rispetto si ritrova l’eredità del personalismo cristiano (da Rosmini a Scheler, da Maritain a Mounier) che si intrecciava con il personalismo kantiano presente in altre tradizioni (quella liberale e azionista in particolare).
Questa tradizione personalistica, se da un lato si faceva portatrice della difesa dei diritti fondamentali dell’individuo, tipici della tradizione liberale, dall’altro sottolineava la dimensione relazionale dell’essere umano, il suo carattere naturalmente, e non artificialmente, sociale. In ciò recuperava, accanto al tema della libertà e dei diritti, il tema della solidarietà e dei doveri, riconnettendosi così al solidarismo sociale ottocentesco di matrice socialista e – in Italia – anche mazziniano. Su questa base antropologica si andava così delineando quella concezione umanistica della democrazia che avrebbe consentito ai cattolici costituenti di intessere un’intesa straordinaria che doveva portare al miracolo della Costituente, quando si seppe raggiungere anche su articoli eticamente impegnativi un’amplissima convergenza.
Per capire questo miracolo non si insisterà mai a sufficienza, come soleva fare Giuseppe Dossetti, sul fatto che i costituenti avevano negli occhi le macerie della guerra e la sistematica negazione dell’umano operata dai totalitarismi. Ma nemmeno si può sottovalutare l’omogeneità del retroterra culturale dei costituenti stessi, quel loro comune ritrovarsi nella tradizione umanistica italiana. Se si rileggono i dialoghi tra Giorgio La Pira, Lelio Basso, Concetto Marchesi colpisce una koinè concettuale e letteraria, uno stile comune che portava naturalmente, pur nelle differenze metafisiche e politiche, all’ascolto, alla comprensione reciproca e infine alla possibile convergenza.
Un secondo elemento significativo – come ha puntualmente sottolineato Giorgio Campanini – sta nell’abbandono della categoria dello stato confessionale e del cattolicesimo come religione ufficiale dello stato, ancora presente nello Statuto albertino. Già Rosmini, nella sua riflessione quarantottesca sulla Costituzione, aveva proposto il superamento dell’alleanza tra trono e altare e dello stato confessionale, rivendicando al cristianesimo e alla chiesa cattolica “non privilegi, ma libertà”, ma la prevalente cultura cattolica ottocentesca e novecentesca si muoveva ancora nello schema dello stato cristiano. Matura in questi anni, invece, sia pure in forma ancora embrionale, l’idea della irrinunciabilità della libertà religiosa per tutti – soprattutto dopo la tragica esperienza delle persecuzioni nei confronti degli ebrei da parte di regimi che avevano stipulato concordati con le chiese cristiane – e della laicità dello stato, intesa come indipendenza dall’autorità religiosa ma anche come riconoscimento dell’alterità della sfera spirituale e della sua sovranità nel proprio ambito. Ciò si fece in modo però embrionale e parziale, perché si concesse alla sola chiesa cattolica un pieno riconoscimento della sua sovranità e del regime concordatario (art. 7), mentre, per l’opposizione anche dei cattolici, non si giunse a sancire un regime di piena eguaglianza di trattamento nei confronti delle altre comunità religiose.
Questa visione della laicità dello stato era espressione non solo del rispetto della sfera religiosa come sfera “altra” e indisponibile alla politica, ma anche di una visione dei limiti dello stato che lo concepiva come uno degli attori sociali e non come quello esclusivo. Alle spalle di questa visione vi era la tradizione del pluralismo degli ordinamenti giuridici e sociali che in Italia non aveva antecedenti solo nel pensiero cristiano ma anche in una significativa tradizione giuridica di cui studiosi come Santi Romano erano autorevoli esponenti. La stessa concezione pluralistica della società si ritrovava nelle tradizioni del pensiero federalista, nonché in diversi esponenti del laburismo inglese e della socialdemocrazia tedesca che fuoriuscivano dallo schema dualistico individuo-stato tipico dello statalismo liberale e della tradizione giacobina e comunista. Dentro queste tradizioni la socialità dell’individuo non si esauriva nella società politica, ma si esprimeva in una pluralità di formazioni sociali che andavano dalla famiglia alle associazioni professionali, dai comuni alle università, dai sindacati alle comunità religiose. Società aventi una loro origine indipendente dallo stato e dotate di un diritto proprio, che certo andava armonizzato nel quadro dell’uguaglianza giuridica e politica di tutti i cittadini, ma senza compressioni di quella fondamentale autonomia anche istituzionale che era vista come discendente dalla stessa incomprimibile libertà personale. Questa concezione si trasformò in dettato costituzionale nella formulazione dell’art. 2 sulle “formazioni sociali”, nonché in una serie di altri articoli riguardanti la sfera delle autonomie locali (art. 5 e Titolo V), la sfera religiosa (art. 7), quella familiare (artt. 29, 30, 31), nonché la sfera delle attività economiche e sociali.
D’altra parte la stretta connessione tra la personalità e la solidarietà nei confronti delle diverse formazioni sociali spingeva i cattolici ad accentuare la dimensione della giustizia nell’attività economica che si esprimeva in alcuni, chiari principi. Tra questi: i limiti della sicurezza e della dignità umana posti alla libera iniziativa e la necessità di un indirizzo e un coordinamento a fini sociali (art. 41); la funzione sociale e l’accessibilità a tutti della proprietà privata (art. 42); la funzione della cooperazione e il valore della mutualità (art. 46); il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende (art. 46); la solidarietà in campo tributario (art. 53). Con ciò veniva posto in discussione il modello del liberismo economico e di uno stato mero spettatore del farsi e del disfarsi della vita economica. Emergeva con forza l’idea di una fondamentale funzione dello stato nella realizzazione di condizioni di giustizia sostanziale e non solo formale, idea ben presente nel Codice di Camaldoli, che finì per rifluire nella Costituzione grazie alla presenza in Assemblea di La Pira e Vanoni (tra gli estensori del Codice) e dei fondamentali apporti di Dossetti e Moro.
Un ultimo aspetto che non si può dimenticare riguarda la dimensione internazionale. È questa una dimensione che era da sempre presente nella tradizione cattolica segnata da una prospettiva universalistica e sempre diffidente nei confronti del nazionalismo. Nel Codice di Camaldoli come negli altri documenti della Resistenza fino al dibattito in Costituente l’insistenza sul tema della pace, della condanna della guerra e di ogni imperialismo è forte, così come l’impegno a superare l’assolutezza della sovranità nazionale in vista della creazione di pacifici organismi sovranazionali. Alle spalle di questa posizione si rileva chiaramente la presenza del magistero pontificio (dall’“inutile strage” di Benedetto XV ai pronunciamenti di Pio XII), ma anche la riflessione di Sturzo e l’europeismo di De Gasperi. Ma vi era anche, di nuovo, quella concezione del pluralismo degli ordinamenti giuridici di cui sopra, che consentiva di vedere con chiarezza i limiti dello stato, non solo all’interno, nei confronti delle diverse formazioni sociali, ma anche all’esterno, nei confronti degli altri stati.
Sulla base di questi elementi, maturati nell’esperienza del fascismo e della guerra, quella dirigenza politica e intellettuale dei cattolici democratici si congedò dalle nostalgie temporalistiche del passato, dalle opache alleanze tra trono e altare che finivano per rendere opaco lo stesso annuncio evangelico, dalla subalternità alle componenti più conservatrici in campo politico ed economico e cercò, con le altre forze progressiste, di dare vita a una nuova stagione della democrazia italiana. Una stagione in cui protagonista fosse, finalmente, il popolo nella sua ricca varietà di espressioni. E per questa idea di una piena sovranità popolare, di uno stato costruito dal basso e non dall’alto e quindi oltre ogni disegno paternalistico e tecnocratico, alcuni costituenti – si pensi tra tutti a Costantino Mortati – si spesero con forza. Non sempre videro riconosciuti i loro sforzi, ma indicarono con chiarezza una strada. Oggi, in tempi di democrazia rattrappita, quella bella aspirazione a una democrazia popolare e repubblicana andrebbe ripresa. E i cattolici, per dirla con le parole di Igino Petrone nel 1898, dovrebbero con urgenza cooperare con le forze socialiste e progressiste per risolvere l’“antitesi storica della democrazia politica e della democrazia sociale”.