C’è un episodio della vecchia serie “Ai confini della realtà” intitolato “Wordplay”. C’è un tizio che la mattina si sveglia e dopo un po’ si accorge che la gente usa parole per lui strane e incomprensibili, fuori posto. In ufficio lo salutano con un “Buona angolarità”, la moglie lo avvisa che il bambino non ha fame, tornato da scuola non ha “neppure toccato il suo dinosauro”. È una situazione bizzarra, che peggiora progressivamente. Il tizio passa dallo stupore, al nervosismo, alla rabbia furente. Tutti paiono parlare – non si sa perché – una lingua assurda, fatta di parole familiari, riconoscibili, ma in un ordine stravolto, che alla fine per il malcapitato non è più comprensibile. Cosa sia successo, non è dato sapere. Sembrano tutti reciprocamente sorpresi, in totale buona fede, preda di un fenomeno inspiegabile.
Chissà come, in questi giorni quella storia mi è ritornata in mente. È che un po’ mi sembra rispecchiare il clima del dibattito politico degli ultimi tempi, tra la fiducia, a volte prematura, per una pagina nuova di politica che si fa strada a gomitate e l’innalzamento di paratie impermeabili al rinnovato presente in cui non ci si riconosce. E se l’innalzamento delle barriere può apparire perfino scontato quando si tratta di avversari politici, è un po’ più singolare che accada all’interno dello stesso partito, per giunta nel momento in cui si trova alla guida del governo.
Non tanto tra quelli che contano nel Pd, quanto tra i suoi militanti e sostenitori, si sta consumando una rappresentazione di incomunicabilità che arriva a picchi di disconoscimento del gruppo dirigente e degli esiti del congresso da poco concluso. La questione è delicata e forse vale la pena di non liquidarla con la ben nota teoria (per carità, basata su evidenze storiche di una certa rilevanza) dei partiti di sinistra che per loro natura si frantumano di continuo. Di questo atteggiamento fa le spese persino chi tra i leader della minoranza cerca, tenace, di mantenersi su un terreno di discussione sui temi, sulle proposte politiche, sulle prospettive. Per non ridursi a un predicatore che lancia anatemi verso il degrado dei tempi moderni e dei suoi interpreti, nell’illusione che un inasprimento dei toni giovi al ripristino di una presunta normalità perduta.
L’anormalità, l’eccezionalità della situazione che vive l’Italia e il Partito democratico, per coloro che accettano con sofferenza l’esito della competizione congressuale e il ruolo presidenziale di Renzi, giustificherebbe più o meno qualsiasi iniziativa contro lo stato presente delle cose. Capiamoci, è una posizione legittima, e persino comprensibile in un momento di crisi. Se ci mettiamo d’accordo sulle implicazioni del termine crisi.
Il concetto di crisi implica sempre una reazione psico-sociale di straniamento. Non ci si riconosce in ciò che succede intorno. Che la politica italiana sia in crisi, è un dato di fatto. Che abbia subito una mutazione di passo, di linguaggio è un altro fatto difficilmente negabile. Siamo, credo, in una piega storica di quelle che i cultural studies contemporanei definiscono una discursive rupture, una frattura del discorso. L’infrazione del paradigma, la novità, in parole povere, non è di per sé positiva, va detto per non cadere nella trappola di salutare anche i colpi di stato come una ventata d’aria fresca. È, però, il modo di far procedere la storia, inevitabilmente.
Foucault li definiva i momenti in cui ciò che fino a un certo punto è stato inesprimibile diviene invece evidente, universale, necessario. Una nuova cornice concettuale e linguistica rimpiazza la precedente. Non è mai un processo a costo zero. Porta con sé un corredo di destabilizzazione culturale e sociale che implica anche interpretazioni di segno conservatore. Le reazioni di straniamento perciò si manifestano con atteggiamenti di chiusura, enfatizzazione di presunte età edeniche del passato in cui rifugiarsi, negazione della novità stessa.
Tutto legittimo, ma con dei rischi. La rottura discorsiva può non piacere, si può dissentire. L’errore da non commettere però è quello di attestarsi tra coloro che vogliono estraniarsi dal terreno della discussione. Che non vogliono ammettere la legittimità e la necessità di un nuovo discorso nella politica e nella cultura italiana. Ci piaccia o no, figure come quelle di Grillo, con tutti i suoi limiti, e di Renzi, con tutto il suo portato di speranza e ottimismo per il futuro, hanno fatto questo negli ultimi anni. Hanno costretto tutti ad adattare ritmo, parole e obiettivi a una pagina storica nuova.
È per questo che, ad esempio, la battaglia contro il Movimento 5 Stelle intrapresa dal Pd non va combattuta sul piano di un’inconsistente delegittimazione simbolica, come quando si è aspramente criticata la decisione di ricevere Grillo nelle consultazioni per la composizione del nuovo governo. O come quando ci si è indignati per l’incontro tra Renzi e Berlusconi nella sede del Nazareno. Allo stesso modo, oggi non ha senso, per chi decida di stare nel Pd, fare una campagna di minimizzazione dell’autorevolezza del presidente del Consiglio: perché interrogarsi o – peggio – irritarsi sui riconoscimenti e la fiducia di Barack Obama nei confronti di Renzi?
Il presidente americano ha fatto né più né meno ciò che doveva fare: ha parlato con un leader nazionale, stabilendo un cordiale rapporto istituzionale e politico. Quanto al rapporto personale, non ci è dato sapere, né ci dovrebbe interessare più di tanto. Quella delle amicizie personali che pongono le basi della politica internazionale era la modalità berlusconiana, quella delle pacche sulle spalle e del “ci penso io quando lo invito nella mia villa in Sardegna”. Quel tempo, anche quello delle sfavillanti cene tra magnati e leader esteri in odore di totalitarismo, è al tramonto. Il tempo nuovo è difficile. È costellato delle insidie di scorciatoie populiste, come nel caso di Grillo, e dell’ottimismo senza esperienza del giovane leader del Pd. Cosa si leggerà in questa pagina nuova dipenderà da chi conosce la lingua per scrivere. E impararla non è solo consigliabile, è necessario.
L’episodio di cui vi parlavo all’inizio finisce così. Dopo giorni terribili l’uomo sbollisce la rabbia, si rassegna al fatto che nessuno intorno parla più come lui. Abbraccia la moglie e mette a letto il figlio. Prende il suo abbecedario. Alla figura di un cagnolino corrisponde la parola “mercoledì”. Sorride, la ripete. Piano, un po’ scettico, ma senza perdersi d’animo.