La Seconda Repubblica è stata anche (e forse soprattutto) una lunga discussione sull’europeizzazione del nostro sistema politico. Una discussione che si avvia a conclusione proprio mentre i sistemi politici europei, paradossalmente, si italianizzano. La crisi dei debiti sovrani ha infatti fortemente accelerato la convergenza del dibattito pubblico in tutti i principali paesi dell’Ue: gli italiani, o almeno gli italiani che guardano il telegiornale, conoscono ormai non solo il nome del capo del governo greco o tedesco, ma persino quello dei loro ministri delle finanze. Il problema è che questo processo di omologazione non è andato proprio nella direzione auspicata dai riformatori italiani degli anni novanta.
In Francia, in Spagna, in Gran Bretagna, forze politiche nuove – o tradizionalmente emarginate dallo scontro tra socialdemocratici e conservatori – sembrano avere conquistato stabilmente un terzo dell’elettorato, mettendo in crisi il tradizionale meccanismo di alternanza bipolare destra-sinistra e imponendo una nuova linea di distinzione: quella tra europeisti e antieuropeisti. Esattamente come è accaduto in Italia nel 2013. Da noi, del resto, il tentativo di costruire un simile meccanismo di alternanza non è stato per niente semplice e la confusa ideologia del bipolarismo, dietro cui si nascondeva spesso un’opzione ancora più radicale per un sistema bipartitico e presidenziale sul modello americano, ha finito per spianare la strada a un populismo sudamericano di cui il paese è rimasto ostaggio per vent’anni.
In Francia la novità ha un volto vecchissimo e preoccupante, quello di una formazione di estrema destra come il Front National guidato da Marine Le Pen. In Spagna a scombinare i giochi è Podemos, una forza che per certi versi si presenta come erede della sinistra no global e indignada (sebbene a noi ricordi parecchio il Movimento 5 Stelle, in particolare per l’insistenza con cui equipara destra e sinistra come due facce della stessa “casta”). In Gran Bretagna il ruolo del terzo incomodo è rappresentato dallo Ukip di Nigel Farage, che assomiglia forse di più alla Lega delle origini. Mentre in Italia sembriamo godere, per l’appunto, di entrambe le versioni del populismo antieuropeo: la sua anima più inquietante, quella della destra lepenista francese, incarnata qui da Matteo Salvini (che non per niente sfila ora con Casapound), e la sua versione anarco-cazzara sperimentata in Spagna da Podemos, ma già ampiamente rodata in Italia da Beppe Grillo.
L’emergere di formazioni antisistema sempre più forti in tutta Europa pone dunque socialisti e popolari di fronte a una scomoda alternativa: inseguirle sul loro stesso terreno, radicalizzando le proprie posizioni e il proprio messaggio, oppure fare blocco al centro per respingerne l’assalto. Con il serio rischio di fare il loro gioco in entrambi i casi. Noi che per primi ci siamo dovuti confrontare con questo problema, dopo l’esito tripolare delle elezioni politiche del 2013, ci troviamo forse più avanti di altri su questa strada. Resta da vedere, però, se si tratti della strada giusta.
Il caso italiano è certo tra i più originali. La Seconda Repubblica, in fondo, si è chiusa così com’era cominciata: con una crisi finanziaria che ha messo a rischio lo stesso ancoraggio europeo dell’Italia e con un governo tecnico chiamato dal Quirinale a imporre un brusco riequilibrio dei conti (Amato-Ciampi nel ’92-93, Monti nel 2011). Incorniciati tra questi due estremi, i venti anni che vanno dalla crisi del ’92 alla crisi del 2011 somigliano molto a un assurdo gioco dell’oca, e così la ventennale discussione a proposito dell’europeizzazione del nostro sistema politico. Una discussione che si avvia a concludersi con le riforme istituzionali e la nuova legge elettorale promosse dal governo Renzi in nome di un’idea di bipolarismo e di “governabilità” che appaiono oggi, improvvisamente, molto datate. Di fronte alla crescente frammentazione del consenso e al moltiplicarsi delle forze antisistema in tutta Europa, c’è da augurarsi che avere privato il sistema di preziosi margini di flessibilità in nome del principio secondo cui “la sera del voto si deve sapere chi ha vinto” non possa rivelarsi domani il problema, invece che la soluzione.