La tragedia nel Canale di Sicilia ha riportato al centro dell’attenzione i problemi dell’integrazione. Un tema particolarmente scomodo per il Partito democratico di Matteo Renzi, per la semplice ragione che integrazione, in un certo senso, è il contrario di disintermediazione.
A questo punto forse dovrei spiegare in che senso è il contrario. Ma preferisco prenderla alla larga, partendo da una commedia francese del 1992, La crisi! di Coline Serreau, dove lo spiantato Michou finisce per caso nel lussuoso salotto di un deputato socialista, scandalizzandolo con le sue opinioni razziste e sospettosamente vicine alla propaganda lepenista. Michou si guarda intorno, paragona il posto in cui vive il parlamentare a quello in cui vive lui, e ne conclude che sia “molto più facile essere contro il razzismo quando si abita a Neuilly che quando si abita a Saint Denis”. La sua visione del problema è semplice: “Tre quarti del pianeta stanno nella merda e allora cercano di piazzarsi dove c’è meno merda, cioè qui da noi, e poi una volta qui bisogna che qualcuno si stringe per fargli posto e farli sopravvivere, è ovvio”. “Appunto”, lo incalza a questo punto il deputato. “Sì, ma finora chi si è stretto per fargli posto sono quelli di Saint Denis, mica quelli di Neuilly”, risponde lui.
Non ho mai trovato una più precisa analisi del problema dell’integrazione. Analisi che riassumerei così: non è possibile predicare l’integrazione agli altri – a quelli di Saint Denis, o magari di Tor Sapienza – mentre, nei fatti, se ne pratica l’esclusione. Non possiamo prima costruire periferie-ghetto in cui rinchiudere gli ultimi della società e poi scandalizzarci perché non vogliono condividere fraternamente un po’ della loro lieta povertà con gli ultimi della Terra.
A pensarci bene, però, non è un problema così nuovo come si dice. L’Italia ha già affrontato in passato un problema simile. A lungo il primo punto in cima all’agenda politica è stato quello che allora si usava chiamare l’integrazione delle masse nella vita dello stato. Questa è stata, dopo la liberazione, la funzione dei grandi partiti popolari. Molto hanno contato, ovviamente, le grandi fabbriche, per non parlare delle parrocchie, anche per i tanti immigrati che dal Mezzogiorno si trasferivano al Nord in cerca di lavoro. Ma potenti strumenti di integrazione sono stati senza dubbio le sezioni di partito, il sindacato, l’associazionismo. In altre parole, quei famosi corpi intermedi che la retorica della disintermediazione condanna oggi come incrostazioni burocratiche, come altrettanti ostacoli alla modernizzazione dell’Italia, mentre la verità storica è che ne sono stati a lungo il principale veicolo.
Ma che cosa s’intende, esattamente, con integrazione? Non si tratta di astrazioni politologiche, né di formule retoriche. S’intende, per esempio, una biblioteca dove possa studiare anche chi non ha i soldi per i libri. Una piscina dove tutti possano nuotare, o magari insegnarlo ai propri figli. Una palestra, un parco, un locale dove passare del tempo, da soli o con la propria famiglia, anche per coloro che a prezzi di mercato non se lo potrebbero permettere mai, neanche la domenica, e tuttavia ne hanno diritto, perché è un diritto di tutti. Perché è questo l’integrazione: un diritto. Per rivendicare un diritto, però, bisogna prima sapere di averlo. Ed è a questo che dovrebbero servire i partiti.
Il problema è che sembrano averlo dimenticato anche loro. Anche la sinistra, rinchiusa nel suo salotto come il deputato socialista del film, assediata da una folla senza nome che ai propri rappresentanti sembra capace di chieder conto soltanto di quanto le costino e mai di quanto le rendano, di quanto abbiano guadagnato per sé e mai di quanto in questi anni abbiano reso all’Italia, ai tanti italiani dimenticati ai margini degli studi televisivi e delle redazioni dei grandi giornali. E se l’unico spazio pubblico rimasto a loro disposizione, per discutere o almeno per sfogarsi, è una pagina Facebook, davvero possiamo poi stupirci se ci troviamo le parole atroci che sono comparse in questi giorni, dopo la tragedia del Canale di Sicilia?
Forse, prima di dare lezioni agli altri, dovremmo tornare a prendere qualche lezione noi. Un corso accelerato di rialfabetizzazione democratica che ci restituisca le parole fondamentali della rappresentanza degli interessi, del conflitto politico e dell’integrazione sociale. Che è anche e prima di tutto il contrario della disintegrazione morale cui assistiamo impotenti di questi tempi, mentre cerchiamo disperatamente, per tragedie molto più grandi di noi, parole abbastanza piccole da entrare in un tweet.