Se volete conoscere i particolari del pessimo carattere di Orson Welles, delle sue intemperanze alimentari, del suo essere politicamente scorretto ben oltre l’invettiva personale, della sua ossessione nei confronti dei difetti fisici di amici e conoscenti, allora dovete leggere A pranzo con Orson (Adelphi), una serie di conversazioni a tavola tra Welles e Henry Jaglom svoltesi tra il 1983 e il 1985. E malgrado l’enorme quantità di malignità, giudizi sommari, preconcetti misogini, omofobi e razzisti, è molto probabile che Orson continuerà a starvi simpatico per quel meccanismo che rende irresistibili le grandi intelligenze che ostentano con noncuranza la loro (pretesa) malvagità e insolenza.
In molti fissano l’esordio di Welles nel film Quarto potere del 1941, mentre altri lo fanno risalire allo sceneggiato radiofonico della Cbs War of the Worlds trasmesso nel 1938, quando, però, il nostro giovane genio era già regista e produttore del programma settimanale della Cbs Mercury Theater on Air, e non certo un debuttante. In effetti Welles, dopo alcune esperienze da attore teatrale e radiofonico, aveva esordito già nel 1936 – appena ventunenne – come regista e produttore di uno spettacolo che assume contorni quasi mitici per gli addetti ai lavori: il Voodoo Macbeth del Lafayette Theatre di Harlem. Il giovanissimo regista ambienta la tragedia nel XIX secolo, in un’isola caraibica dove Ecate, la regina delle streghe, diventa un sacerdote voodoo. La trasposizione gli permise di reclutare un cast interamente afroamericano composto da pochi attori professionisti e molti dilettanti.
L’adattamento di Welles ebbe un enorme successo di pubblico e di critica. Ma va detto che in quegli anni negli Stati Uniti stava accadendo qualcosa di straordinario: malgrado la spaventosa crisi economica, i consumi in drammatico calo, i tragici tassi di disoccupazione e la povertà dilagante, gli Usa stavano sperimentando una stagione di profonda innovazione e straordinaria vivacità nel settore della cultura. La spinta propulsiva di questo cambiamento non venne, però, dall’impresa privata, dai mecenati, dal capitalismo. Insomma, dalla mitologica “economia di mercato” che tutto contiene e tutto dovrebbe sanare. Giunse, invece, dal vecchio, banale, imperfetto, pigro e anche un po’ noioso welfare: dall’investimento finanziario e dalla struttura organizzativa statali. Perché il ben noto New Deal di Roosevelt, all’interno dell’imponente programma di creazione di lavori di pubblica utilità per i disoccupati, pensò anche ai lavoratori della cultura rimasti per strada. Migliaia di attori, artisti, scrittori, tecnici del teatro, registi, musicisti iscritti nelle liste di disoccupazione (era questo l’unico criterio di selezione) vennero assunti per creare, sperimentare, produrre, mettere in scena, scrivere, suonare, cantare, dipingere, recitare, insegnare, divulgare. Insomma, per svolgere tutte quelle attività che, ancora oggi, sono considerate da tanta parte della pubblica opinione, ma anche delle istituzioni e della politica, la negazione stessa del lavoro.
Gli esiti, e non poteva essere altrimenti, furono vari e diversi. Furono prodotti spettacoli di avanguardia, come quelli di Welles, e rappresentazioni più tradizionali. Gli artisti decorarono centinaia di edifici pubblici con dipinti murali di pessima, discreta, ottima e talvolta addirittura straordinaria qualità. Grazie ai progetti federali per gli scrittori furono pubblicate guide turistico-culturali degli stati americani e si editarono anche romanzi e racconti di autori come Richard Wright e Saul Bellow (ma negli archivi si trovano anche i manoscritti di John Steinbeck). Vennero suonati migliaia di concerti e organizzate lezioni di musica in ogni angolo del paese, nacquero nuove orchestre e si finanziarono ricerche nell’ambito dell’etnomusicologia recuperando la tradizione musicale afroamericana. Accanto a tutto questo ci furono naturalmente anche censure (il musical The Cradle Will Rock diretto da Welles fu bloccato dall’amministrazione federale a poche ore dalla prima per l’eccesivo radicalismo dei temi trattati), episodi di corruzione, nepotismo, malversazione. Ma i progetti del New Deal, interamente sostenuti dalla fiscalità generale, rappresentano senza dubbio uno dei momenti più alti della vita culturale americana e al contempo uno dei periodi di maggiore partecipazione degli uomini e delle donne di cultura alla vita del loro paese.
Probabilmente il talento di Welles si sarebbe fatto strada anche fuori dal contesto costruito grazie agli investimenti pubblici per la cultura. Quel che è certo, però, è che gli Stati Uniti uscirono dalla Grande Crisi grazie all’intervento pubblico e che guadagnarono la leadership culturale – se proprio non vogliamo usare il termine egemonia – sulla vecchia Europa e sull’occidente, anche per merito di decine di migliaia lavoratori della cultura pagati ogni settimana dallo stato federale.