Immaginate il campus di un’università americana molto liberal. Il candidato alle elezioni presidenziali è sul palco, seduto tra un professore di diritto e uno di storia contemporanea. Immaginate ora una studentessa, biondina, ordinata, che si avvicina al microfono e pone una domanda semplice e senza via d’uscita: «Nel 1975 lei ha firmato un articolo sulla rivista di questa università, in cui auspicava l’abolizione del carcere. Cosa ne pensa oggi, è ancora favorevole?». Immaginate ora un candidato che non si mostri sorpreso, ma che si limiti a rispondere: «Sì, la penso come allora: il carcere dovrebbe essere abolito». Quel candidato perderebbe le elezioni. La pretesa di sicurezza è il doping della competizione politica ed è un’idea indissolubilmente legata al carcere.
Ora potete svegliarvi, e tornare nel paese in cui si agitano magliette inneggianti alle ruspe per demolire i campi rom. Immaginate cosa potrebbe accadere qui. In un paese che subisce il fascino morboso delle manette – in un modo che andrebbe psicanalizzato – la prigione è considerata l’unica risposta rispettabile dello stato nei confronti di chi commette un reato. Il carcere resta un argomento da cui i politici si tengono lontani, per non scontentare i tifosi del panpenalismo giudiziario, teoria per cui, se una farfalla batte le ali in Giappone, e provoca un uragano in Europa, devo metterla in galera. E così il compito di introdurre in questo paese un dibattito serio sui luoghi di reclusione e sulla loro reale efficacia viene spesso lasciato ai giuristi e agli intellettuali.
Luigi Manconi è un intellettuale con un rilevante ruolo politico, senatore del Partito democratico e presidente della commissione Diritti umani del Senato, e ha scritto un libro a più mani (le altre sono quelle di Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta) dal titolo scandaloso: Abolire il carcere (Chiarelettere) per quella che lui stesso definisce «una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini». Sembra una provocazione, ma non lo è. Manconi prova a dimostrarlo, spiegando – dati e statistiche alla mano – che abolire il carcere, mantenendolo solo per alcuni reati più gravi, non sarebbe un’utopia moralistica, ma una decisione razionale ed efficiente per il sistema. Perché il carcere italiano non funziona come dovrebbe, è criminogeno, viola i diritti umani, è costoso e ha perso ogni capacità di rieducare il condannato, mentre le uniche funzioni che oggi gli ritroviamo attribuite nel dibattito pubblico sono l’allontanamento e il controllo di soggetti pericolosi e la reazione vendicativa. Sorvegliare e punire.
Era il 28 marzo del 1757 quando Robert François Damiens veniva squartato, tenagliato, fatto a pezzi da due cavalli sulla Place de Grève, sotto gli occhi di Giacomo Casanova e di un folto pubblico accorso per lo spettacolo. Sono passati meno di trecento anni dalla cronaca di quel supplizio; se la legge del taglione ha rappresentato un progresso rispetto all’arbitrio del re, il carcere è certamente un progresso rispetto alla fine del povero Damiens. Ma le pene evolvono con la società, e forse è giunto il momento di mettere in discussione le prigioni.
L’ossessione etica di questi ultimi anni ha deformato il senso stesso della pena, e in ogni espressione pubblica a favore del carcere c’è solo la richiesta di punizione: chi ha sbagliato deve pagare, e l’unica moneta è la detenzione. La rieducazione è scomparsa e il carcere viene usato come la promessa di uno spettacolo nel circo romano. Ma se una pena è declinata in modo costantemente anticostituzionale – e una pena che sia solo sanzione lo è – va abolita o fortemente raddrizzata. Non è una semplice suggestione – scrivono gli autori – che in una costituzione scritta da ex galeotti non ci sia traccia del carcere: chi ha provato la detenzione sulla sua pelle ha voluto lasciare libera la politica di scegliere un sistema di pene proporzionato e efficace. Ci dovrebbero bastare alcune delle statistiche citate nel libro: la recidiva di chi sconta la pena con una misura alternativa è bassissima (meno del 20 per cento), mentre quasi il 70 per cento di chi sconta la pena in carcere commette un altro reato. Ormai pagare il proprio debito con la società esclusivamente attraverso la detenzione carceraria è come pagarlo in dracme.
La soluzione? Limitare il carcere al minimo indispensabile, a pochi e gravi reati, a soggetti di accertata pericolosità sociale, costruendo un solido sistema di pene alternative (come la messa alla prova, i lavori socialmente utili, gli arresti domiciliari), realmente finalizzate al rispetto dei principi costituzionali. Ci trasformeremmo in un episodio di The Walking Dead, barricati in casa mentre fuori si scatena l’apocalisse, o nella Manhattan di 1997: Fuga da New York? No, io penso che diventeremmo un paese più civile, con un sistema penale più efficiente. Forse avremmo pene meno afflittive, dall’equilibrato punto di vista della piazza, ma sarebbero pene effettivamente eseguite, e le prospettive di recidiva precipiterebbero.
C’è un dato in questo libro che colpisce: in Italia l’82,6 per cento dei condannati sta scontando la pena in carcere; in Francia e Gran Bretagna la percentuale scende al 24. In questi numeri è riassunta la nostra ossessione per le galere. Ma una società che reclude i “cattivi”, senza la speranza di recuperarli, e agisce sistematicamente sulla leva del diritto penale per risolvere ogni attrito, è una società che si arrende, che ammette la propria debolezza, cannibalizzandosi pezzo dopo pezzo. La politica deve assumersi la responsabilità di questo cambio di paradigma perché, se fosse stato per l’opinione popolare – scrive Manconi, citando Luigi Ferrajoli – probabilmente in Italia avremmo ancora la pena di morte. La piazza che si accalcava per i posti migliori al supplizio di Damiens oggi grida: in galera! «Più penso al problema del carcere – scriveva Altiero Spinelli in una lettera a Calamandrei – e più mi convinco che non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale». E chissà cosa direbbero a Micromega.
P.S. Lascio qui questo mio scritto. Nessuno se ne curerà mai, e non credo che sarò mai candidato a qualcosa. Ma, se dovesse capitare, confido in un posto di capolista bloccato.