La parola “tortura” deve risuonare come un termine esotico, che rimanda a democrazie incompiute e luoghi remoti dalla società italiana contemporanea: stanze di pietra tra le montagne del Pakistan; camere di sicurezza in un palazzo mediorientale; mefitiche caserme diroccate nel centro dell’Africa. Un concetto vago, la cui assenza dal nostro immaginario quotidiano consente di rivendicare la nostra superiorità – giuridica, sociale, culturale – esercitando una forma di osservazione etologica, un birdwatching delle violazioni dei diritti umani perpetrate tra i rami di qualche paese dal nome impronunciabile, come se non ci riguardasse.
Deve essere così, perché altrimenti non si trova una spiegazione razionale alla mancanza di volontà politica di introdurre in Italia una norma che punisca adeguatamente il reato di tortura, adempiendo a un obbligo internazionale contratto nel 1984 quando l’Italia – senza riserve o emendamenti – sottoscrisse la Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite, poi ratificata nel 1988. Da quel giorno del 1984 sono una decina le proposte di legge finite sommerse dalle emergenze, di cui siamo maestri indiscussi. Ma c’è un momento in cui abbiamo scoperto di non essere immuni da questo male, e la tortura è improvvisamente sfuggita all’immaginario di un’oscura camera di sicurezza cilena e si è materializzata come qualcosa di concreto e concepibile, e quel momento è stato il G8 di Genova: i fatti della scuola Diaz e di Bolzaneto hanno tolto dall’imbarazzo chi non osava pronunciare quella parola.
La cronaca degli ultimi anni si è poi arricchita di episodi di violenza subiti da persone in stato di detenzione, i casi Uva, Cucchi, Aldrovandi – che sono solo i più clamorosi – hanno contribuito a riportare al centro del dibattito la tortura. La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha condannato l’Italia, stigmatizzando proprio l’assenza di un reato ad hoc, sembrava avere dato la spinta decisiva all’iter parlamentare. Invece il cammino della legge si è spostato su un piano inclinato che lo sta conducendo verso il definitivo affossamento.
È dal marzo 2013 che Camera e Senato si rimpallano il testo di legge e, dopo alcune modifiche significative rispetto alla definizione di tortura contenuta nella Convenzione, che ne hanno cancellato la natura di reato proprio del pubblico ufficiale, nell’ultimo passaggio in commissione al Senato il reato è stato ulteriormente emendato, trasformandolo di fatto in un non-reato, una norma applicabile in casi assolutamente marginali ed eccezionali. Secondo gli emendamenti approvati, perché si possa parlare di tortura, la violenza e la minaccia devono essere declinate al plurale, e dovranno essere “gravi” e insieme “reiterate” cagionando “acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico”.
Un singolo atto di tortura, dunque, non sarà tecnicamente punibile come tale: se in un interrogatorio minaccio di morte i tuoi figli per ottenere informazioni, e le ottengo immediatamente, la tortura non sarà configurabile; la somministrazione di piccole scariche elettriche, invece, sarebbe reiterata, ma potrebbe non essere una violenza grave. In ogni caso il terrore, il panico e la sofferenza dovranno essere accertati – a distanza di anni – da un medico specialista. Tecniche di tortura comunemente impiegate, come la privazione del sonno, le finte esecuzioni, il bombardamento sonoro, o il costringere il torturato in posizioni innaturali per lungo tempo, rischiano di non essere punibili, perché in alcune di esse non concorrono contemporaneamente tutti gli elementi necessari. Le stesse violenze della scuola Diaz, commesse nei confronti di persone che erano libere e che stavano solo dormendo all’interno di una scuola, potrebbero non configurare il reato di tortura nella sua versione emendata.
L’approvazione di una norma sulla tortura che rischia di non punire la tortura è il sintomo che qualcosa non funziona. Queste modifiche – che arrivano praticamente all’unanimità dopo l’audizione informale dei vertici delle forze di polizia – hanno evidentemente, come unica finalità, quella di neutralizzare l’introduzione del reato, rendendolo difficilmente applicabile o lasciandolo languire in un’interminabile navetta parlamentare. Il reato di tortura è considerato un reato “punitivo” nei confronti delle forze dell’ordine, e a questa visione hanno contribuito alcune organizzazioni sindacali che agitano il rischio di denunce strumentali e la paralisi dell’attività di repressione e sicurezza. Ma è come se Confindustria avesse reagito all’introduzione dei nuovi eco-reati paventando il blocco totale delle attività produttive. La posizione corporativa di alcuni sindacati di polizia suona quasi come una excusatio non petita. E però male non fare, paura non avere: la responsabilità penale è personale, non si capisce perché l’introduzione del reato di tortura dovrebbe costituire un attacco alle forze dell’ordine. Indagare le ragioni di una volontà politica così debole potrebbe essere scoraggiante.
Qualcuno ha scritto che la società italiana, nel suo complesso – politica compresa – ha paura della polizia. C’è un fondo di verità, forse, ma un’altra parte della risposta va ricercata, come troppo spesso accade in questi ultimi tempi, in un’attenzione spropositata alle istanze di sicurezza e alla “pancia” dell’opinione pubblica. E per comprendere quella pancia dobbiamo rivolgerci a Matteo Salvini. In una sintesi perfetta, formulata in occasione di una manifestazione del Sindacato autonomo di polizia di fine giugno, il leader della Lega ha detto: “Se poi un delinquente lo devo prendere per il collo e si sbuccia un ginocchio… affari suoi”. Il principio dell’habeas corpus demolito in due righe.
La legge sulla tortura viene presentata strumentalmente come un attacco diretto alla sicurezza degli italiani, attraverso una norma punitiva nei confronti delle forze dell’ordine. La debolezza politica, dunque, sembra ancora una volta derivare da una subalternità culturale alle istanze securitarie e dal timore di venire percepiti come nemici della sicurezza. Emblematico è il fatto che, il giorno successivo a quello in cui la legge sulla tortura è stata così gravemente colpita, sui giornali appariva la notizia della prossima presentazione di un progetto di legge per aumentare le pene minime per gli scippi, i furti in casa e le rapine.
Niente reato di tortura, dunque, ma “una forte stretta del governo sui reati più avvertiti dagli italiani, che minano la sicurezza della propria casa e la possibilità di muoversi liberi in strada”, scrivevano le agenzie. Ci stiamo ripiegando su noi stessi, siamo avviluppati nella matassa delle paure, come scrive Marc Augé, e, se il consenso è un cardine dei sistemi politici contemporanei, è tempo di chiedersi che tipo di società stiamo preparando, inseguendo l’ansia collettiva solo per il timore di perdere il consenso. Stiamo scavando la fossa di concetti come responsabilità, dignità, rispetto dei diritti umani, e coltivando un’opinione pubblica conservatrice e repressiva, il cui core business rischia di diventare il binomio sicurezza-repressione.
Il reato di tortura non è un reato punitivo nei confronti di forze dell’ordine democratiche, adeguatamente preparate e che si muovono nei limiti imposti dalla legge, ma dev’essere un reato in grado di punire qualsiasi perdita di controllo. Se esiste una volontà politica di approvare quella legge, rispettando gli obblighi internazionali, è il momento di manifestarla con decisione in Aula, respingendo ogni tentativo di neutralizzare per l’ennesima volta l’approvazione della legge. L’ottimo, talvolta, è nemico del bene, ma il compromesso, questa volta, rischia di essere la sua tomba.