La notizia principale della giornata di venerdì è stata la chiusura di due ore del Colosseo per un’assemblea sindacale convocata e regolarmente preannunciata dai lavoratori che reclamavano, tra le altre cose, il pagamento degli straordinari effettuati da circa un anno e non ancora retribuiti. Due ore durante le quali, complice la scarsa organizzazione della direzione che non aveva avvisato per tempo, i turisti sono stati lasciati in coda ai piedi del monumento senza adeguate informazioni.
L’episodio ha suscitato reazioni parossistiche da parte della stampa e della politica. Il ministro Franceschini ha detto che “la misura è colma”, il sottosegretario ai Beni culturali ha twittato che l’assemblea sindacale è stata un reato, rettificando poi – bontà sua – che era un “reato in senso lato”. Il sindaco di Roma e il capogruppo del Pd alla Camera hanno parlato di “sfregio alla città di Roma”; un parlamentare del Pd ha lamentato che la chiusura non fosse stata notificata al New York Times, l’ex direttore del Corriere della sera, Ferruccio De Bortoli, è arrivato a sostenere che bisognerebbe chiedere i danni ai lavoratori per i mancati introiti. Per due ore di chiusura. L’esito più significativo è stato però un decreto con cui il governo ha inserito i beni culturali tra i servizi pubblici essenziali, come trasporti e sanità, in modo da garantirne la fruibilità anche in caso di assemblee e scioperi.
Il Colosseo è il quinto monumento più visitato al mondo e ovviamente il più visitato d’Italia. È probabilmente anche quello con gli orari e i giorni di apertura più ampi: è aperto il 25 aprile, il primo maggio, il 2 giugno, a ferragosto; chiude solo a Natale e a Capodanno. È l’unico, tra i monumenti e musei del mondo, a non avere neanche un giorno di chiusura settimanale per la manutenzione ordinaria. È aperto, in altre parole, 363 giorni all’anno. Ora, due ore di chiusura in un monumento aperto 363 giorni l’anno non dovrebbero apparire come un danno irreparabile, né per le casse dello Stato, né per l’immagine del Paese. Perché allora l’apertura ritardata per un’assemblea sindacale è sembrata una catastrofe? Per capirlo ci vogliono po’ di numeri.
Il Colosseo è visitato ogni anno da circa 6 milioni e mezzo di persone e incassa circa 40 milioni di euro l’anno. Rispetto a dieci anni fa il numero dei visitatori è raddoppiato; rispetto a venti anni fa è aumentato di dieci volte. E la tendenza è in crescita. I cospicui incassi del Colosseo finanziano il funzionamento dell’intera Soprintendenza di Roma che si occupa tra le altre cose anche della tutela del territorio e della valorizzazione di siti archeologici, musei e monumenti di minor richiamo ma non di minore importanza, come il Palatino, il Foro Romano, la via Appia.
Qui però arrivano i problemi: oltre al Colosseo Roma ha anche un numero enorme di musei e siti archeologici di straordinaria bellezza e importanza – l’ultimo censimento ne contò 225 – nessuno dei quali, però, è capace da solo, per ricchezza di collezioni e per investimenti, di “fare massa critica” e attirare un numero di visitatori tale da farne significativi poli attrattivi per il turismo. Tutti gli altri musei e siti archeologici statali di Roma, sommati, non arrivano che a un decimo dei visitatori del Colosseo e incassano meno di un ventesimo. Può un sistema complesso come quello dei beni culturali e del turismo fondarsi su un unico monumento? In quale altra capitale mondiale la chiusura per due ore di un singolo monumento riesce a gettare nel panico il Ministero della Cultura costringendo il governo a una decretazione d’urgenza che, per scongiurare altre chiusure, arriva a limitare i diritti costituzionali dei lavoratori?
Nel maggio scorso la Tour Eiffel, monumento simbolo di Parigi non meno di quanto il Colosseo lo è per Roma, chiuse per 7 ore a causa di uno sciopero degli addetti alla vigilanza; due anni fa a chiudere per sciopero fu il Louvre. Non risultarono allora interventi legislativi da parte del governo francese per impedire scioperi dei lavoratori, né scene di isteria da parte dei mezzi di comunicazione. Il fatto è che turisti di Parigi, di Londra, di New York, Berlino hanno e sono consapevoli di avere fior di alternative per la chiusura imprevista del museo o del monumento più famoso della città. Quelli che vengono a Roma, pure con 225 musei e siti a disposizione, non sanno di averne.
Questa situazione è l’esito di una politica culturale impostata dal ministero che ha visto indirizzare sul Colosseo quasi tutti gli sforzi di promozione e di valorizzazione, trascurando, pur con alcune rilevanti eccezioni, la maggior parte degli altri musei e siti archeologici della città. E così Roma, pur avendo molte decine di musei e un patrimonio sterminato, non ha per esempio un museo archeologico proprio. Provate per esempio a chiedervi: qual è il museo della città di Roma? Vi accorgerete di non saper rispondere. Parigi ha il Louvre, Londra il British, Madrid il Prado, Berlino il Pergamon. Roma? Roma ha… i Musei Vaticani. Musei pubblici paragonabili a quelli delle grandi capitali: nessuno. Ciò è dovuto in parte alla discutibile idea, attuata negli anni novanta, di dividere il Museo Nazionale Romano in quattro sedi, separando le collezioni della città di Roma in quattro luoghi diversi (Palazzo Massimo, Terme di Diocleziano, Palazzo Altemps, Crypta Balbi), ma anche al fatto che tutti gli investimenti più significativi, ultimo dei quali quello di 18 milioni stanziati per ripristinare l’antica arena, sono indirizzati alla promozione del monumento che di promozione ha meno bisogno, il Colosseo.
Negli ultimi anni, in altre parole, si è fatto del Colosseo non tanto la punta di diamante del sistema culturale italiano ma l’unica vera attrattiva culturale di massa della città (al punto da aver cambiato il nome dell’istituzione che governa l’archeologia di Roma da Soprintendenza per i Beni archeologici a Soprintendenza per il Colosseo). Il risultato è che il Colosseo ha accentrato su di sé tutto il flusso turistico e se la sua fruizione viene meno, anche per sole due ore, è un disastro. Il governo considera giustamente il turismo e in particolare il turismo culturale un settore strategico per il Paese. Da oggi lo considera anche un servizio pubblico essenziale, come i trasporti, la sanità, la pubblica sicurezza, assegnando finalmente ai beni culturali l’importanza che meritano. Bene. Benissimo. Però c’è qualcosa che non va se un governo che considera strategico il turismo culturale non paga per un anno gli straordinari ai lavoratori che quel patrimonio rendono fruibile. Può un ministero che reputi così importante il Colosseo permettere che vi lavorino 26 custodi in tutto, 7 persone a turno, con ventimila turisti al giorno, cioè, a conti fatti, un custode ogni mille turisti? E bisognerà poi interrogarsi anche su una struttura dirigenziale che per la seconda volta in pochi mesi (l’altra fu a Pompei, quest’estate) non riesce a gestire un’assemblea di lavoratori regolarmente annunciata e autorizzata per tempo.
Se la fruizione dei beni culturali è un servizio pubblico essenziale – e certamente lo è – allora, insieme a regolamentazioni più stringenti in materia sindacale, sono necessarie politiche di ampio respiro. È necessario valorizzarne i professionisti, mettendoli in condizione di lavorare decentemente e in numero congruo. Bisogna saper diversificare l’offerta, destagionalizzarla, promuovere adeguatamente pochi altri mirati musei e siti archeologici non meno importanti e farne altrettanti poli di attrazione turistica anche di massa. Tutto ciò richiede investimenti e intelligenza, entrambi in misura cospicua, ma è l’unico modo per non restare in brache di tela se un singolo monumento chiude per due ore.