Del dibattito sul sistema bancario italiano sviluppatosi a seguito della crisi di quattro piccole banche locali ci sono due cose positive. La prima è che tutti si sono improvvisamente accorti che in questi ultimi anni l’Unione europea non è stata affatto ferma a contemplare il vuoto e ha prodotto una mole spaventosa di legislazione, fino a ieri pressoché sconosciuta ai più ma ora diventata argomento di discussione pure sui giornali di provincia. Mai avremmo pensato che acronimi come Mifid, BRRD e CRR sarebbero diventati pop. La seconda cosa positiva è che – altrettanto improvvisamente – si è scoperto che il principio “basta soldi alle banche” che negli ultimi anni tanti consensi ha portato al populismo italiano e non solo, qualche problemino lo crea.
La legislazione europea oggi tanto criticata dai vari Salvini e Grillo è figlia esattamente di quel principio, secondo cui non un soldo del cittadino-contribuente deve essere usato per salvare le banche in difficoltà. Anzi, l’odiata Unione europea ha fatto anche di più. A differenza di quello che leghismi e grillismi vari vanno urlando in tv e nelle piazze da anni, si è anche preoccupata di dare un bel giro di vite a quello che gli istituti di credito possono fare, introducendo una serie di limiti, tetti e parametri che sono autentici rompicapo pure per gli appassionati di finanza. Dopodiché l’Europa ladrona si è preoccupata di istituire un sistema di vigilanza unica per le 130 banche più grandi, in modo da evitare che i singoli supervisori nazionali potessero chiudere occhi, orecchie e bocca davanti al proprio sistema bancario pericolante, così come fu fatto prima della crisi soprattutto da quei paesi che ora si atteggiano a maestrine con la bacchetta in mano, tipo la Germania e l’Olanda.
Sempre l’Europa si è adoperata per rafforzare la tutela e la protezione degli investitori, andando a ingrossare il pacco di prospetti informativi da firmare che l’impiegato di banca ci sottopone sbuffando ogni volta che decidiamo di comprare un titolo. Infine è stato il turno del pezzo forte di cui tanto si parla in questi giorni: il bail-in. Una autentica rivoluzione culturale: se una banca va a gambe all’aria non pagherà più Pantalone, cioè l’ignaro cittadino che magari non conosceva nemmeno l’esistenza di quell’istituto di credito. A pagare saranno gli azionisti, gli obbligazionisti e i correntisti sopra i 100mila euro della banca stessa, in questo preciso ordine. Solo dopo aver raccolto un ammontare di soldi sufficienti – l’8 per cento del bilancio della banca – si potrà accedere al Fondo unico di risoluzione delle crisi, una sorta di assicurazione europea costituita con i contributi che le stesse banche versano annualmente. Se nemmeno questo fondo dovesse bastare – ma qui siamo in piena fantascienza – si potrà prendere in considerazione un intervento pubblico di salvataggio. Quest’ultimo è effettivamente un piccolo tradimento alla crociata populista contro i soldi alle banche, ma verrà applicato soltanto nei casi più estremi, di fatto statisticamente impossibili: dati alla mano, nessuna banca andata in crisi in Europa dal 2007 in poi avrebbe ottenuto un solo euro dai bilanci pubblici se fossero state già in vigore le norme messe in piedi negli ultimi anni.
Tutto bene quindi? Si è no. Il governo italiano si è trovato davanti a quattro banche andate in crisi, per un totale di 2,8 miliardi di euro di perdite da coprire. E ha applicato le regole senza fare favori a nessuno. Due miliardi sono finiti a carico degli azionisti e altri 500 milioni sono finiti sul groppone di grandi investitori come altre banche e fondazioni, senza causare eccessivi turbamenti. Il problema sono i restanti 300 milioni di euro di obbligazioni in mano a 11 mila piccoli risparmiatori. Alcuni di loro possono aver comprato quei titoli quando le norme sul bail-in non erano ancora entrate in vigore e forse sono gli unici, salvo ovviamente coloro che siano stati truffati, a potere reclamare qualche forma di risarcimento. Quando hanno acquistato quei titoli, la crociata populista contro i salvataggi bancari non si era ancora completata e loro non potevano sapere che un giorno il giavazzismo avrebbe trionfato e loro si sarebbero trovati dalla parte sbagliata della barricata. Poi, come dicevamo, ci potrà essere qualche caso di mis-selling, ovvero persone che quei titoli non dovevano proprio comprarli perché incapaci di capire di che si trattava, ma che sono stati circuiti dai funzionari di banca al momento dell’acquisto. Di questi casi si occuperà la magistratura con le sue inchieste e – speriamo – anche il governo, perché alla Consob non sembra abbiano vigilato a dovere.
Ci sono però anche molti che sembrano usciti dal mondo lapalissiano di Massimo Catalano, indimenticato protagonista di Quelli della Notte, dove è sempre meglio avere di più che di meno. Tutta gente che, di fronte ai depliant colorati con le famiglie felici che correvano sui prati verdi e che promettevano un investimento con un rendimento due o tre volte superiore a quello dei titoli di Stato venduti dal povero ministro Padoan, non si sono mai chiesti dove stesse la fregatura. Hanno preso la penna, compilato e firmato tutta l’odiosa “burocrazia” messa in piedi per tutelarli e non per far loro perdere tempo, e per qualche mese hanno potuto vantarsi di portare a casa degli interessi ben più alti di quelli offerti dai Bot. Davanti all’irresistibile attrazione del guadagno facile e al sorriso dell’impiegato di banca, che magari è pure il vicino di casa o il compagno di partite a carte al bar, l’unico rimedio potrebbe essere quello di impedire ai piccoli risparmiatori di comprarsi quei titoli, o comunque consentire loro di farlo per piccole frazioni dei loro risparmi. Ma già immaginiamo le urla di dolore dei grandi maître à penser nostrani, che cominceranno a parlare di Stato invasivo e paternalista, vittima del retaggio catto-comunista che vuole limitare la libertà dei cittadini di arricchirsi a piacere.
L’alternativa c’è, ed è quella di abbandonare il bail-in e tornare ai tempi in cui era lo Stato – cioè la collettività – a farsi carico delle perdite delle banche. Ma a quel punto lo Stato dovrà avere pure il diritto di dire alle banche cosa fare e cosa non fare anche nei periodi in cui il cielo è sereno, ben più di quanto non accada ora. Quello che non si può fare è pretendere di tornare ai tempi in cui le banche facevano quello che volevano e, se le cose andavano male, arrivava il soccorso pubblico a ripianare le perdite con i soldi dei cittadini. Quei tempi ce li siamo lasciati alle spalle senza alcun rimpianto.