Se oggi qualcuno mi dicesse che il bicameralismo paritario è una buona idea che va difesa, che permette il controllo di una camera sull’operato dell’altra o che evita di promulgare leggi seguendo ondate emotive, gli risponderei che invece è inutile da settant’anni. Avere due camere non ha mai evitato che si approvassero leggi sciocche o dannose. Non ha nemmeno permesso di avere leggi soltanto decenti quando sarebbe stato il tempo, come nel caso della violenza sessuale o delle unioni civili. Grazie di tutto, ma il bicameralismo paritario può riposare in pace.
Se oggi qualcuno mi esprimesse i suoi dubbi sulla composizione del nuovo Senato, gli chiederei innanzitutto se finora eleggere una camera riservata agli ultraquarantenni, come se fosse un’esenzione sanitaria, gli è sembrato normale. Certo, forse si potevano togliere i senatori a vita, forse invece dei sindaci si potevano mandare dei delegati scelti diversamente, ma nessuna delle due scelte né altre sono a mio parere ostacoli insormontabili. Se i nuovi senatori dovessero fare fatica a conciliare i due mestieri si può intervenire sul Tuel o sui regolamenti consiliari. Le costituzioni servono anche a questo, a tracciare le righe della convivenza tra istituzioni.
Se oggi qualcuno mi descrivesse il nuovo articolo 70 come pasticciato, mi farebbe felice come vecchio lettore di Gianni Rodari, ma gli farei notare che se due camere si occupano di cose diverse i loro rapporti devono essere descritti cercando per quanto possibile di eliminare le ambiguità. E l’eleganza formale dell’articolo in questione, interessante per carità, non mi pare ragione sufficiente per tenersi due camere equivalenti.
Se oggi qualcuno temesse un disegno neocentralista in questa riforma, sarei tentato di rispondergli che era ora, ma in realtà la miglior risposta sta forse nel, non isolato, paradosso degli schieramenti. Per il Sì c’è, in maggioranza, proprio quel centrosinistra che la riforma del titolo V aveva approvato e che oggi se ne vergogna tanto che non si trova un sostenitore manco a pagarlo, per il No chi l’aveva allora osteggiata. Per quanto mi riguarda il regionalismo con le materie concorrenti ha fallito e non lo rimpiangerò. Fosse stato per me avrei riportato allo Stato anche il trasporto pubblico locale.
Se oggi qualcuno si stesse chiedendo se sono Maria Elena Boschi sotto falso nome, devo purtroppo deluderlo, non lo sono. Ovviamente nella riforma ci sono parti che non mi piacciono, più o meno venate di un populismo che non amo. Parlo del limite dei compensi ai consiglieri regionali, delle leggi di iniziativa popolare, del controllo preventivo della Consulta. Tutte cose che avrei evitato, ma mi rendo conto che sfuggire allo spirito dei tempi è arduo. E se alla fine oggi qualcuno, probabilmente un po’ stremato, mi dicesse che sì, è tutto bello ma lui vuole mandare a casa Renzi, gli racconterei la storia di Enda Kenny.
Kenny è l’attuale Taoiseach, la meravigliosa parola irlandese che vuol dire primo ministro. Nel 2009 il Fine Gael, il partito di cui è segretario, vince le elezioni includendo nel programma l’eliminazione del Senato. Il Senato in Irlanda è una cosa stramba e piuttosto ottocentesca composta di accademici nominati dalle università e vari rappresentanti degli ordini professionali. Modificata la costituzione, nel 2013 si tiene il referendum, ma sorprendentemente e sfortunatamente per Kenny questo non passa. Si leva qualche richiesta di dimissioni. Il governo nonostante la maggioranza inattaccabile traballa, ma Kenny tiene duro e porta a termine la legislatura. Quest’anno a febbraio si vota di nuovo e, seppur con un po’ di seggi in meno, il Fine Gael è ancora il primo partito e lui è ancora primo ministro.
I referendum si personalizzano da quando esistono, ma la domanda resta sulla riforma costituzionale, non sulla permanenza del presidente del Consiglio. In politica le domande contano, un pochino meno delle risposte ma contano. Sicuri che votare No sia il modo migliore per toglierselo di mezzo? Io ci penserei bene.