Le difficoltà che il nostro paese ha dovuto affrontare negli ultimi giorni sotto la pressione dei mercati internazionali hanno riportato al centro del dibattito il tema delle privatizzazioni. Partita dalle pagine dei giornali e passata sulla bocca degli esponenti di quasi tutti i partiti, la proposta è approdata fino in Parlamento, fatta propria – non si sa con quanta convinzione – anche dal ministro dell’economia Tremonti. Anche volendo prescindere da un’analisi dei potenziali introiti e delle conseguenze politiche e strategiche della cessione, accanto alle circa 6 mila società municipalizzate, di importanti aziende come Eni, Enel, Finmeccanica, Ferrovie e Cassa depositi e prestiti (valutazione che sembra per il momento non preoccupare nemmeno la maggior parte dei commentatori e politici, concentrati da giorni in un dibattito meramente ragionieristico su introiti e guadagni) crediamo sia utile soffermarsi brevemente a valutare le possibili conseguenze per il nostro paese di un massiccio piano di privatizzazioni. In particolare è necessario capire se effettivamente la dismissione di quel che rimane dell’impresa pubblica italiana potrà contribuire ad allentare la pressione dei mercati sul nostro paese, garantendoci allo stesso tempo un rapido ritorno su un sentiero di convergenza verso i vincoli imposti dall’Unione europea.
Daniel Gros, direttore del prestigioso Center of European Policy Studies, ha recentemente messo in guardia commentatori e governanti sull’efficacia di questo tipo di programmi. La tesi accettata finora senza discussione da quasi tutti sostiene che i governi, vendendo le partecipazioni detenute in portafoglio, otterranno sicuramente un ammontare di fondi tale da poter ridurre parzialmente l’onere per il servizio del debito pubblico, facendo quindi diminuire le probabilità di default e abbassando così il premio al rischio richiesto dagli investitori per acquistare i propri titoli. È una posizione che si è fatta largo negli ultimi trent’anni e che di recente è stata riproposta dal Consiglio europeo per spingere il recalcitrante governo della Grecia a mettere sul mercato importanti asset industriali, nonché quote di banche e aziende di servizi per ridurre il proprio indebitamento e poter così abbandonare il più presto possibile i prestiti del fondo europeo per la stabilità finanziaria e tornare a finanziarsi direttamente sul mercato. Si tratta però di una visione parziale e pericolosa.
Alle entrate una tantum di risorse derivanti dalle dismissioni effettuate, fa infatti da contraltare la riduzione, se non addirittura l’azzeramento, dei rilevanti dividendi staccati che, in ultima istanza, possono essere considerati alla stregua di una perdita di ricchezza per il paese. Basti pensare che nell’ultimo anno la sola Eni ha distribuito allo Stato – grazie alle azioni possedute dal ministero dell’Economia e dalla Cassa depositi e prestiti – dividendi per oltre 1,2 miliardi di euro che si vanno a sommare agli oltre 11 miliardi ottenuti nel corso degli ultimi dieci anni. Se in prima analisi i guadagni immediati dalla vendita e le perdite future per i mancati profitti dovrebbero compensarsi, si può facilmente dimostrare come, in realtà, un vasto piano di privatizzazioni rischierebbe di produrre un aumento del premio al rischio di lungo termine sul debito e quindi rendere ancora più difficile e oneroso per il nostro paese finanziarsi sui mercati. Infatti, cedendo importanti attività che sarebbero altrimenti a disposizione dei creditori nell’eventualità – speriamo remota – di un default, il valore atteso dei crediti vantati nei confronti del nostro paese tenderebbe a diminuire: se fossimo in grado di stabilizzare la situazione i risparmiatori non otterrebbero particolari benefici, ricevendo il valore nominale dei titoli acquistati, mentre nel caso il nostro governo si dichiarasse impossibilitato a ripagare il debito, i possessori perderebbero – in tutto o in parte – il loro investimento. La privatizzazione, quindi, potrebbe produrre un effetto contrario a quello sperato, generando una perdita di valore dei crediti vantati nei confronti dello stato italiano e, di conseguenza, un aumento del premio al rischio richiesto per acquistare i titoli. Uno scenario che, tenuto conto degli effetti anticipatori dei mercati, andrebbe considerato con maggiore attenzione non solo prima di mettere in atto le eventuali dismissioni, ma anche prima di iniziare a parlarne.