A chi ha a cuore le sorti del Partito democratico, il lento trascorrere del mese di agosto non ha risparmiato le preoccupazioni; non tanto per le molte polemiche che hanno riempito le pagine dei giornali, quanto per gli argomenti con cui sono state affrontate dai dirigenti del Pd.
A Eugenio Scalfari e a Nanni Moretti che lamentavano la scomparsa dell’opinione pubblica, ad esempio, si sarebbe potuto rispondere che per il Partito democratico prima vengono gli elettori, i cittadini, il popolo. E poi, semmai, quell’opinione pubblica progressista che in passato si è rivelata spesso la migliore alleata di Silvio Berlusconi, e che comunque avrebbe tutto da guadagnare dalla ricostruzione di grandi partiti radicati nella società (non solo tra redattori e lettori di giornali) e anche per questo culturalmente autonomi.
Cambiando quel che c’era da cambiare, si sarebbe potuto rispondere nello stesso modo anche a Sergio Chiamparino, che accusava il partito torinese di lesa maestà per aver messo in dubbio l’idea dell’aerea metropolitana: anche chi è eletto direttamente dal popolo a una carica monocratica è più forte se ha dietro di sé un partito democratico, autonomo e radicato. E se ne ascolta le legittime critiche senza accusare di sabotaggio chiunque si permetta di dissentire, come avveniva in altri tempi, in altri partiti (e in altri paesi).
Quanto ai molti osservatori, inviati dei giornali e turisti politici che indicavano a modello la convention dei democratici americani, a dirla tutta, si sarebbe anche potuto rischiare di raffreddare un po’ il loro entusiasmo, manifestando persino un certo orgoglio per le nostre manifestazioni elettorali, in cui i militanti sventolano le bandiere del proprio partito, invece di alzare cartelli con il nome del candidato.
Persino il cambio di direzione all’Unità, soltanto a volerlo, avrebbe potuto essere un’ottima occasione per chiudere definitivamente una stagione infelice, annunciando un giornale che trovi il coraggio – sulla giustizia, sul rapporto tra economia e politica, insomma, sulle cose serie – di dire parole sue, smettendo di ripetere quelle della pubblicistica di moda.
Sfortunatamente, nulla di tutto questo è accaduto. Il segretario del Partito democratico ha risposto a Moretti e Scalfari parlando di memoria e di romanzi. Il responsabile organizzazione ha intimato ai duellanti, in Piemonte come in Sardegna, di “mettersi d’accordo”. La delegazione inviata alla convention di Denver ha spiegato che quello è il nostro futuro. E intanto la nuova direttrice dell’Unità, con un’antica citazione veltroniana sfuggita ai più, dichiarava che essere di sinistra è far sedere la vecchietta sull’autobus – per Veltroni, a suo tempo, si trattava di essere comunisti, ma queste sono sottigliezze per filologi – e non giocare con la Playstation.
Ma se ad agosto queste nubi inquietanti si erano già addensate all’orizzonte, il temporale è scoppiato a settembre. Sabato, infatti, Walter Veltroni ha parlato alla “Festa democratica” di Firenze, in un lungo monologo in cui ha riproposto i grandi classici di questi mesi (la destra ha vinto ma noi non abbiamo mica perso, e comunque non per colpa nostra, perché è il mondo che va a destra), derubricato a intelligenza con il nemico ogni espressione di dissenso (“Parisi ha offeso tutto il popolo del Pd”), svoltato leggermente a sinistra (su economia e immigrazione) e chiesto tempo, tempo e pazienza: le europee e le amministrative sono importanti, ma non si può giudicare un ottocentista dai primi duecento metri. Perché bisogna giudicarlo da come arriva al traguardo, si capisce. Solo che questo curioso maratoneta, presentatosi come il più fulminante degli scattisti, sembra avere la pretesa di fissare il traguardo dove decide lui. Dal discorso di Firenze par di capire che il traguardo non erano le elezioni politiche – quando, “diciamoci la verità, sulla vittoria del Pd non ci avrebbe scommesso un soldo nessuno” – e non sono ora nemmeno le amministrative, né le europee. Il traguardo è finito laggiù, nel 2013. Per farla breve, Veltroni ha annunciato che intende rimanere al suo posto fino alle prossime politiche, spazzando via le voci su un suo imminente, clamoroso passo indietro.
Per noi è una notizia allarmante, perché l’idea della costruzione di un grande partito che sviluppi in forme nuove le diverse tradizioni del riformismo italiano, che sia radicato nella società e politicamente autonomo, con lui alla guida, non potrà mai realizzarsi. Per la semplice ragione, ormai evidente anche ai suoi più ostinati difensori, che Walter Veltroni e il progetto del Partito democratico sono incompatibili.
A dirlo non sono solo i pochi, emblematici esempi citati, ma la storia di questi mesi. E’ passato quasi un anno dalle primarie e il Partito democratico non è un partito e non è democratico. E la sua crisi di consenso e di credibilità è ormai conclamata.
Naturalmente si può sempre decidere di aspettare che il logoramento del leader arrivi al punto da renderne inevitabile e non traumatica la sostituzione, come avvenne a suo tempo per Achille Occhetto. E questa probabilmente è la cinica strategia dei molti che nel Pd assistono all’agonia senza muovere un dito. Il problema è che col passare del tempo, purtroppo, non è solo Veltroni a logorarsi, ma anche quel che resta della sinistra italiana – sempre meno, purtroppo – abbandonata su un’altalena che oscilla in modo spericolato tra alterne improvvisazioni ed eterne subalternità.
Il passaggio più importante del discorso di Firenze, da questo punto di vista, Veltroni lo ha dedicato a una foto che nei giorni scorsi ha fatto il giro del mondo: un orso polare tradito dallo scioglimento dei ghiacci attorno a sé, che non sa come mettersi in salvo. “Il mio cuore sensibile si è commosso”, ha detto Veltroni. Non fatichiamo a crederci. Probabile che sia scattato qualcosa di molto profondo, nel segretario del Pd, anche lui solo e smarrito, in mezzo al progressivo disfacimento del suo partito. E’ un futuro possibile che dovrebbero tenere bene a mente i molti dirigenti – di ogni corrente, area, ispirazione – che a Firenze si sono sentiti addossare tutte le colpe delle attuali difficoltà e promettere severe lezioni dal primo responsabile dell’attuale sfacelo. Aspettare cinicamente la fine della parabola occhettiana del segretario e confidare nel riscaldamento globale porta a un unico epilogo, quello dell’orso polare, quando il partito liquido della nuova stagione, al primo sole di marzo, si sarà già completamente liquefatto. E Veltroni sarà l’ultimo ad affondare.
A chi non voglia affondare prima di lui consigliamo pertanto di dar retta al segretario e fare della questione ambientale un assillo quotidiano. Come si dice in questi casi: oggi è già tardi.