C’è qualcosa di socratico nell’atteggiamento tenuto in questi anni da Giuseppe Englaro. Platone, nel Fedone, racconta che Socrate, condannato ingiustamente alla pena capitale in seguito a un processo politico avviato da Anito e Licone per pura ambizione personale, preferì rimanere in carcere e bere serenamente la cicuta invece di fuggire, come sarebbe stato possibile grazie all’interessamento dei molti che gli erano amici e sostenevano la sua causa. Il piano per la fuga era già stato predisposto, ma Socrate non ne volle sapere. Di fronte all’incomprensione e alla disperazione di chi si era adoperato in buona fede per la sua salvezza, il filosofo ateniese spiegò che solo nell’universalità delle leggi, incarnazione di quanto di vero e di nobile c’è nell’uomo, c’è “salvezza”, c’è il senso e il valore di un’umanità piena. Donde il rifiuto del sotterfugio, della via facile, della scappatoia, anche a costo della morte.
Giuseppe Englaro ha scelto di autocondannarsi non alla morte, ma forse a qualcosa di peggio, pur di dare soluzione pubblica, condivisa, sociale allo strazio proprio e della figlia. L’unico autentico rispetto che gli va tribuato, pertanto, è seguire la sua indicazione e ragionare non tanto della vicenda di sua figlia Eluana, quanto di ciò che in essa vi è di universale. Ciò che deve importare a noi, pare suggerire la condotta di Giuseppe Englaro, non è tanto né solo quel che è successo a sua figlia, quanto ciò che in esso si dà di pubblico. Sembra, insomma, che ci venga richiesta una pietà che sia innervata da ragioni.
Da tutto ciò discende una doppia preoccupazione: che si faccia una legge in merito e che tale legge sia buona. Detto per inciso: la seconda preoccupazione è ciò che avrebbe dovuto impedire di condividere l’iniziativa di decretazione “urgente” del governo anche a chi, come me, era contrario all’idea che a Eluana Englaro andasse data la morte e quella morte. Proprio per il suo carattere di urgenza, infatti, l’iniziativa del governo è risultata legata all’emozione del caso specifico e non all’affermazione di quell’universalità che invece va cercata e costruita con pazienza, e condivisa quanto più possibile. Certamente si trattava di una questione urgente, si potrebbe anche dire, ma era urgente da anni, non da quando a Eluana Englaro è stata sospesa la nutrizione per causarne la morte.
Passando, allora, all’universalità, penso che la civiltà giuridica alla quale apparteniamo abbia già dato forma all’unico principio razionale che può essere dirimente in una simile questione: l’habeas corpus. Ragionevolmente, non può essere messo in discussione. Niente di rivoluzionario né di reazionario, niente relativismo né integralismo: il perno attorno al quale dovrà ruotare una buona legge sul “testamento biologico” o come si vorranno chiamare le disposizioni sui trattamenti in limine vitae non può essere che quello, con buona pace di tutti. Da lì si deve cominciare a edificare universalità.
Uno dei due lati del principio applicato alla questione di cui si dibatte è stato, in questi frenetici giorni, più volte evocato e sviscerato: non si può pensare che esista, nel dettare disposizioni su di sé e sulle cure che si desidera ricevere o non ricevere, autorità superiore all’autodeterminazione della coscienza del singolo, date le condizioni in cui essa opera.
L’altro lato è invece, a mio parere, il grande assente nel profluvio di parole che ci ha travolto: nessuno può avere diritto di decidere per altri, quale che sia la condizione psicofisica attuale dell’altro. Solo Ernesto Galli Della Loggia, sul Corriere della Sera di sabato, ha portato alla luce la perplessità in tutto e per tutto laica di chi ritiene che nel caso di Eluana Englaro la sentenza che ha ricostruito la volontà della donna si prestasse a essere logicamente e umanisticamente decostruita. E, ultimativamente, sottoposta a dubbio. Si tratta di un dubbio che potrà non portare a ritenere che essa non fosse giuridicamente valida, ma che sicuramente basta a far sospettare che quella non può essere una buona soluzione universale a casi presenti e futuri analoghi a quello di Eluana Englaro. Ricostruire un assenso all’eliminazione fisica di una persona incapacitata sulla base di “personalità”, “stili di vita”, “convincimenti” acclarati per induzione sulla base di dichiarazioni rese da testimoni e necessariamente vaghi, visto l’oggetto, è un metodo che si può prestare, al di là della vicenda Englaro, a fungere da presupposto per arbitri e abusi che dovrebbe essere facile immaginare.