Dal punto di vista etico e civile, la campagna in difesa delle intercettazioni e contro la cosiddetta legge-bavaglio si sta rivelando, soprattutto per gli argomenti adoperati da politici e giornalisti, persino più dannosa di qualsiasi soluzione sarà infine adottata. L’ultimo esempio è venuto in questi giorni da Massimo Gramellini, che a “Che tempo che fa” ha ripetuto ancora una volta l’ingannevole ritornello su “tutto quello che non avremmo scoperto in questi anni senza le intercettazioni”. Argomento delicato, naturalmente, ma che proprio per questo meriterebbe una riflessione più attenta e più sincera.
Non entreremo nel merito dei molti punti deboli del consueto, interminabile elenco di scandali politici e finanziari ricordati da Gramellini, anche se su molti di essi, a cominciare da quello sui cosiddetti “furbetti del quartierino”, ci piacerebbe domandargli cosa ne abbia capito lui, grazie alle intercettazioni, di quell’assai complicata vicenda; e se sia proprio sicuro di averla capita bene, grazie all’uso che di quelle intercettazioni fu fatto allora da giornali controllati dai diretti avversari di quegli spregiudicati scalatori; e se sia proprio sicuro di averla capita tutta, nonostante dell’intera partita gli sia stato raccontato soltanto e in modo molto discutibile quello che avveniva dentro una delle due squadre in campo, e nulla della seconda. Ma non è questo l’elemento che ci ha colpito di più, nell’intervento di Gramellini.
Quello che ci ha colpito di più è stato il finale. Senza le intercettazioni, ha detto Gramellini, non avremmo saputo nulla di quegli imprenditori che ridevano del terremoto. Ecco, è vero: non l’avremmo saputo. Non essendo però ancora previsti nel nostro codice i reati di cattiveria, cinismo e avidità, per quale ragione, domandiamo, la famosa “opinione pubblica” avrebbe avuto il diritto di conoscere il contenuto di quella telefonata? Ecco a cosa ci hanno portato tanti anni di incessante martellamento politico-giornalistico su sempre nuove questioni morali: a una concezione “iraniana” del rapporto tra giustizia, politica e informazione, in cui imprecisati guardiani della moralità avrebbero addirittura il dovere di sputtanare chiunque nel corso di una privata conversazione si permetta di pronunciare parole contrarie a una presunta “etica pubblica”, i cui limiti sarebbero stabiliti, a loro insindacabile discrezione, da pubblici ministeri, giornalisti e proprietari di giornali (soprattutto).
Ecco cosa intendeva Giovanni Falcone, crediamo, quando polemizzava con quelle stesse frange della magistratura, della politica e della cultura di sinistra – e in qualche caso proprio con le stesse persone – che dopo avere scatenato contro di lui una campagna violentissima, quando era in vita, accusandolo di “tenere nei cassetti” le inchieste più scottanti sulla politica, lo avrebbero santificato da morto, e oggi ne ricordano commossi il sacrificio, facendosene abusivi portabandiera. “Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti”, diceva Falcone. Perché “la cultura del sospetto non è l’anticamera della verità. La cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo”.