Come molti film americani, Kill Bill segue perfettamente la morfologia del videogame. Una struttura narrativa unilineare, dialoghi ridotti al minimo e dalla funzione puramente ornamentale, azione concentrata interamente sull’avanzata del protagonista lungo le diverse tappe del percorso canonico: Antefatto, dove si racconta il torto subito; il Viaggio, quando l’eroe miracolosamente sfuggito alla morte, parte alla ricerca dell’antico maestro; la Preparazione, con il ritrovamento delle armi magiche (in questo caso la katana) e l’allenamento. Ma tutto questo è appena una breve e sommaria premessa, perché i nove decimi del film sono occupati dalla fase successiva: il Combattimento. Il film oscilla infatti tra il cartone animato giapponese e il più classico dei videogiochi, quello che le riviste specialistiche chiamano “beatemup” (“picchiaduro”). In breve, Kill Bill sta a Pulp fiction come Vultus V sta a Goldrake. Ci ha ricordato infatti la prima perdita dell’innocenza, quando i produttori di giocattoli giapponesi cominciarono ad imporre ai disegnatori robot più facilmente riproducibili. Trasformando così i luminosi eroi dei nostri sogni, come Goldrake, in ridicoli pezzi di latta alla Vultus V, poco credibili come salvatori della Terra persino per i canoni di un bambino di otto anni. Ed ora che i videogiochi hanno definitivamente oscurato i pupazzi di latta, Kill Bill è già pronto per la produzione. Come in ogni videogioco che si rispetti, infatti, seguiamo la protagonista avanzare per i diversi livelli: inseguimento in moto, combattimento nel ristorante, combattimento nella neve, con tanto di “mostri di fine quadro” (gli avversari più tosti, con armi speciali, eccetera eccetera). C’è tuttavia un elemento che nessuna grafica sarà mai in grado di riprodurre: gli occhi tristi di Uma Thurman dietro la katana. Valgono da soli l’intera trama, che non c’è e di cui del resto non ci è mai fregato niente. In altre parole, un capolavoro.