Forse era meglio se restava a casa. Riferito al re o allo spettatore, fate voi, ma questo è il dubbio che assale la platea dinanzi al sospirato arrivo dei titoli di coda, dopo le tre ore e ventuno minuti di spettacolo che compongono Il ritorno del re. Ed è un peccato, perché per molti aspetti la trilogia di Peter Jackson sfiora invece il capolavoro (non per nulla l’ultimo episodio ha vinto quattro Golden Globe, da sempre considerati anticamera dell’Oscar): dalla cura filologica nella ricostruzione alle spettacolari inquadrature dall’alto, dalla felicità di molte intuizioni narrative fino alla scelta degli attori (raro caso in cui alla fedeltà “fisica” al personaggio del testo originale si uniscano convincenti prove di recitazione).
La trilogia del Signore degli anelli si chiude invece ingloriosamente, mostrando tutti i difetti già emersi nelle prime due parti, amplificati fino al ridicolo in un finale a singhiozzo, in cui si è sempre sul punto di alzarsi e sempre inopinatamente richiamati al proprio posto da una serie di lieti fine che non finiscono mai: mozziconi di storie parallele lasciate in sospeso e che ora lo spettatore deve smaltire, con lo stesso pathos con cui affronterebbe un cumulo di pratiche arretrate. Personaggi e digressioni di cui anche il più esperto cultore tolkieniano ha ormai perso il filo, senza peraltro avvertire alcuna necessità di riannodarlo, sommerso da una folla di personaggi che riappaiono e riscompaiono senza costrutto, e irritato dal sorriso ebete che s’impossessa del protagonista negli ultimi quaranta minuti, forse anch’egli intontito dall’interminabile sequela di agnizioni finali.
La noia prende il sopravvento almeno a partire dall’arrivo del re, scortato dal suo esercito di fantasmi fosforescenti che in un batter d’occhio pongono termine alla battaglia, uccidendo così ogni pathos in un improbabile turbinio colorato che la fa assomigliare più alla pubblicità di un detersivo che allo scontro finale di un’epica sfida. E mentre l’occhio di Sauron si spegne definitivamente, anche quello dello spettatore fatica a restare aperto, mentre lo sguardo piega decisamente sul proprio orologio da polso. Dispiace dunque dover accostare Il signore degli anelli all’altra trilogia cinematografica americana, Matrix, fondata su ben più fragili basi letterarie (di quelle pseudo-filosofiche non vale nemmeno la pena scrivere), ma sembra proprio di trovarsi di fronte a un Tolkien reloaded: in entrambe le mega-produzioni, nel momento in cui lo spettatore dovrebbe essere al massimo del coinvolgimento emotivo e persino davanti alla morte di personaggi tutt’altro che secondari, nulla riesce a scuotere la noia. Sature di scene d’azione e carenti di trama, le due trilogie sembrano avere dimenticato le più elementari regole narrative. Quella morfologia del racconto cinematografico giunta a un tale grado di perfezione da rendere avvincente qualsiasi porcheria di cassetta, trasformandola in un prodotto standardizzato ma proprio per questo sempre impeccabile. Basta pensare al pathos dell’ultimo, mortale incontro di Apollo Creed con il crudele Ivan Drago in Rocky IV, o alla straziante agonia della bella vietnamita tra le braccia dello stesso Sylvester Stallone in Rambo II. Il punto è che sempre più spesso, nei film degli ultimi anni, viene invece clamorosamente a mancare il rispetto dei tempi narrativi. Quella legge eterna valida per l’alta letteratura come per il b-movie, secondo cui devi prima dare allo spettatore il tempo di immedesimarsi nei personaggi, se vuoi che nel momento culminante dell’azione salti sulla poltrona e resti incollato allo schermo fino all’ultimo minuto. Manca del tutto quell’alternanza di “piano” e di “forte”, di dialoghi brillanti e scene lente e tranquillizzanti seguite da improvvise accelerazioni drammatiche o da lunghi intermezzi carichi di tensione. Manca insomma quell’arte della suspense che aveva fatto grande ed emozionante il cinema americano. Sarà la crisi degli sceneggiatori, o sarà vero piuttosto che ormai le major hollywoodiane sono fissate su un target di pubblico tra i dodici e i quattordici anni, fatto sta che il peggiore b-movie anni Ottanta sembra avere ancora molto da insegnare ai kolossal del nuovo milennio.