Lo sciopero del paese selvaggio

I lavoratori di Melfi hanno molte buone ragioni per scioperare, costretti come sono da oltre dieci anni a guadagnare un quinto in meno dei loro colleghi, nonostante il loro sia lo stabilimento con la manodopera più giovane e qualificata, capace di raggiungere i più alti livelli di produttività. Il fatto che i lavoratori di Termini Imerese guadagnino più dei loro colleghi di Melfi è forse non soltanto una fotografia della Fiat di oggi (tra l’altro, in Sicilia il costo della vita è anche più basso che in Basilicata), ma un esemplare ritratto del paese. Ragioni assai meno valide hanno i lavoratori dell’Alitalia che in questi giorni sono tornati a paralizzare gli aeroporti, nessuna le società di calcio e i cobas delle tifoserie che molto presto, c’è da scommetterci, torneranno a mobilitarsi negli stadi e nelle strade di tante città. Al di là delle singole responsabilità e delle diverse situazioni, vi è un dato quasi iconografico che dà il senso di quanto sta accadendo: la lotta dei lavoratori per mettere in ginocchio quella stessa Fiat dinanzi alla quale, fino a pochi mesi fa, al suo capezzale, eravamo tutti inginocchiati nel tentativo di risollevarla. Ma in ognuna delle tante occasioni di conflitto che dall’inizio di quest’anno hanno scosso l’Italia, a imporsi all’attenzione è il metodo: dagli scioperi selvaggi dei tranvieri milanesi è stato un susseguirsi di agitazioni fuori da ogni regola, sfuggite al controllo degli stessi sindacati e spesso rivolte innanzi tutto contro di loro. Sotto l’onda lunga dei cobas e nella crisi di rappresentanza delle grandi confederazioni e delle istituzioni in generale, riemerge ancora una volta il vizio storico dell’Italia dall’unità a oggi: il ribellismo dei ceti popolari, figlio di una visione corporativa e particolaristica dei loro interessi e dell’incapacità delle classi dirigenti nazionali di ricondurre a unità le spinte disgregatrici. Il collasso del sistema politico negli anni di Mani pulite aveva prodotto il ritorno dell’antipolitica, la demagogia della società civile e il populismo referendario. In questi dieci anni il sistema industriale e finanziario che aveva retto quello stesso quadro politico era rimasto però sostanzialmente congelato, al riparo dagli scandali che avevano decapitato i vertici dei partiti e delle istituzioni. Con il suo tracrollo – dai casi Cirio e Parmalat alle loro ripercussioni sullo stesso sistema del credito, dalla crisi Fiat a quella dell’Alitalia – la spinta disgregatrice assume ora le forme dello sciopero selvaggio e del ribellismo particolaristico, ostile a ogni forma di rappresentanza organizzata degli interessi, dal parlamento al sindacato di categoria. La campagna elettorale sarà inevitabilmente segnata dal ritorno sulla scena di questo paese selvaggio. Ed è pure significativo che proprio oggi, mentre si compie l’unità dell’Europa, riemergano i mali storici dell’unità d’Italia. La scelta compiuta dalle principali forze del centrosinistra di stringersi in un progetto unitario, proprio in occasione delle elezioni per Strasburgo e in nome dell’Europa, non poteva rivelarsi più opportuna. Silvio Berlusconi arriva alla campagna elettorale nei giorni in cui può celebrare un nuovo scudetto del Milan e la vittoria nel suo derby personale con Bettino Craxi, di cui il 5 maggio supererà il record di permanenza al governo. Ma la Champions league è un’altra cosa.