In questi lunghi mesi di occupazione abbiamo chiesto ripetutamente che la sinistra non abbandonasse l’Iraq. Lo abbiamo fatto perché ritenevamo si stesse giocando una partita cruciale, il cui esito avrebbe influenzato il futuro del Medio Oriente, quindi dell’Occidente, quindi del mondo intero. Abbandonare il campo ci sembrava un’inutile fuga dalle nostre responsabilità, perché una cosa è rifiutarsi di invadere un paese, altra cosa è decidere – una volta che quel paese è già stato invaso e trascinato nel caos – di fare fagotto e lasciare che gli invasi si arrangino tra loro. Abbiamo fatto il tifo per tutti quelli che in questi mesi hanno cercato di ricostruire una gestione multilaterale del conflitto, si chiamassero Blair, Colin Powell o Brahimi. Quali che fossero le reali probabilità di spingere l’amministrazione Bush a cambiare linea, abbiamo pensato e continuiamo a pensare che il compito della sinistra e dell’Europa fosse esattamente questo: spingere l’America a cambiare linea. Lasciare l’Iraq al suo destino non ci è mai parsa un’idea brillante né di sinistra, pertanto non abbiamo mai apprezzato chi lo chiedeva a gran voce e chi lo faceva unilateralmente, come Zapatero. Nel frattempo, di fronte al precipitare della situazione, la risposta americana non è cambiata ed è ancora incarnata dal volto di Rumsfeld volato a elogiare le truppe, dopo essere stato egli stesso pubblicamente elogiato dal presidente degli Stati Uniti. La domanda che si pone a questo punto è molto semplice e in questi termini è stata posta anche dai dirigenti più avveduti del centrosinistra: si può restare in Iraq agli ordini di Donald Rumsfeld? Evidentemente no. La valutazione del centrosinistra è che a questo punto né Brahimi né Kofi Annan potranno cambiare sostanzialmente il quadro. Noi ci auguriamo che sbaglino. L’immagine del Medio Oriente incendiato dal fondamentalismo, con gli americani intrappolati in una guerra senza fine non può far dormire a nessuno sonni tranquilli.
Salvo clamorose sorprese, nulla di ciò che auspicavamo è accaduto. La si può mettere come si preferisce, ma la sconfitta degli americani per il mondo arabo è la vittoria del radicalismo. La più grave responsabilità che peserà sulla coscienza dell’amministrazione Bush e dei suoi consiglieri sarà questa: hanno preso in mano la bandiera della democrazia in Medio Oriente e l’hanno portata alla sconfitta, proprio quando più forti e minacciosi si facevano i suoi nemici. Il fondamentalismo islamico, l’internazionale del terrore di al Qaeda, i regimi dispotici di tanti paesi arabi. A loro abbiamo regalato una vittoria storica che ne galvanizzerà le truppe e rafforzerà la loro presa su società che cominciavano appena ad alzare la testa. Le prime vittime della rotta occidentale in Iraq saranno gli studenti iraniani, verrà poi il turno delle donne saudite e di tutti quei movimenti, singoli intellettuali, partiti politici clandestini che abbandoneremo alla reazione dei loro oppressori. La sconfitta dell’ultimo esercito che tentò di esportare la democrazia e i valori del 1789, quello di Napoleone, finì con il Congresso di Vienna, il principio di legittimità e la più terribile ondata reazionaria che la storia d’Europa ricordi. Ma stiamo parlando dell’Europa dei Lumi, quello che seguirebbe la ritirata degli americani (perché di questo dobbiamo parlare, se non vogliamo fare distinzioni ipocrite), dell’Occidente e delle Nazioni Unite, potrebbe essere assai peggiore del carcere di Abu Ghraib, prima e dopo Saddam. Se la situazione non cambia, l’Italia ritiri pure le sue truppe, che hanno visto oggi un altro caduto ma ancora non hanno capito se e quando possano rispondere al fuoco. La verità è che abbiamo perso di brutto e rimontare sarà difficile. Posto che ci sia la partita di ritorno.