La presenza di Giulio Tremonti al capezzale del governo non poteva passare inosservata. Davanti al letto di ospedale da cui Umberto Bossi decideva ancora una volta la sorte del premier, il malato principale era in realtà Silvio Berlusconi, venuto a pregare il suo ministro di non abbandonare il governo al cospetto della moglie e di un paio di sottosegretari, nonché del super ministro dallo stesso Berlusconi appena dimissionato. Ma forse è sfuggito il senso di quella presenza, perché nelle sue personali idi di luglio Giulio Tremonti ha ricevuto sì ventitré coltellate da nemici e alleati, leghisti compresi, ma il suo figlioccio non era tra questi. Le ultime parole di Giulio Tremonti sono state infatti: “Se ci fosse stato Bossi tutto questo non sarebbe accaduto”. Una lettura superficiale ne ha spiegato il senso con la divisione tra i colonnelli leghisti, l’irritazione per gli ultimi provvedimenti del ministro e altre vicende di scarso momento. Ma la ricomparsa di Tremonti in quella stanza di ospedale non lascia margine a dubbi circa le sue ambizioni e non è da escludere la comparsa alle prossime elezioni di una sua lista (forse era proprio questa la paura dei colonnelli leghisti) né una ridefinizione dell’asse del Nord Bossi-Tremonti in chiave di competizione interna al centrodestra (contro Berlusconi), o apertamente fuori di esso. Resta il fatto che la Casa delle libertà non sembra capace di liberarsi della maledizione dei governi ulivisti, anch’essa ostaggio delle proprie contraddizioni e condannata a un’interminabile agonia. Uno spettacolo che dovrebbe indurre il centrosinistra ad accelerare sulla strada della sua ristrutturazione, a partire da quel partito riformista concepito al preciso scopo di evitare il ripetersi di simili scenari.
Non a caso, mentre il partito dei Perfezionisti continua a stracciarsi le vesti per la prematura dipartita della Seconda Repubblica, del bipolarismo e del partito riformista – lavorando attivamente per una loro rapida sepoltura – all’ultima direzione nazionale dei Ds va in onda un’esemplare partita di calcio. La coppia di centrocampo Fassino-D’Alema, finora impegnata a presidiare la difesa, ha deciso di passare all’attacco. La relazione del segretario si spinge avanti sul terreno della federazione e non fa più cenno al modello dell’unità sindacale, ma si vede subito schierare dinanzi gli incontristi della minoranza, seguiti dal veloce raddoppio di Giovanna Melandri, ansiosa di impostare il contropiede. Il segretario si trova così fermo all’inizio della trequarti, stoppato dalla richiesta di un congresso “unitario”, un congresso “a tesi” piuttosto che su mozioni contrapposte e in cui sia abolita la norma che obbliga ogni mozione a indicare un candidato alla segreteria; in pratica un congresso sterilizzato che si risolva in una discussione sugli “emendamenti” alla proposta del segretario senza chiarire nulla e soprattutto evitando la conta tra maggioranza e minoranza. Davanti al blocco delle linee centrali, Fassino passa dunque la palla a D’Alema, che scalpita in posizione di ala. Prima finta a destra: ci vorrà tempo, dice in sostanza il presidente ds, ma il progetto di dare all’Italia un partito riformista rimane la prospettiva da perseguire. Dribbling e penetrazione sulla fascia: “Qui siamo arrivati a forme di disciplina di corrente – scandisce – perfino al momento del voto in parlamento, quasi una forma di parlamentarismo nero. E ora si vorrebbe un partito organizzato per mozioni tutto l’anno meno che al congresso, per poi naturalmente rivedere le correnti tornare operanti il giorno dopo”. Con queste parole D’Alema si trascina dietro tutti i difensori rimasti, da Mussi a Folena – pronti a giurare che non avrebbero problemi a presentare una loro mozione, ma che questo pregiudicherebbe l’unità del partito – per poi piazzare la palla a centroarea con un morbido tocco a rientrare. Fassino prende la parola per le conclusioni mentre il pallone rotola lentamente davanti alla porta sguarnita: “Sono io il segretario che in questi anni si è sforzato fino all’ultimo per tenere unito il partito e dialogare sempre con la minoranza – entra in area il segretario – ma qui io presento una proposta chiara: andare avanti sulla strada della federazione. Con questa proposta si può essere d’accordo o in disaccordo, ma non la si può emendare. Non si può dire sono d’accordo con tutto il resto, ma devi togliere la parola federazione, perché non avrebbe senso”. E così Fassino infila la rete avversaria con un piatto destro facile facile.