Il terzo anniversario dell’attacco alle Torri gemelle è passato tra le immagini dei bambini di Beslan e la foto del corpo straziato di Enzo Baldoni, nell’angoscia per i giornalisti francesi e le volontarie italiane rapiti in Iraq, le autobomba a Giakarta e a Baghdad, le stazioni della metropolitana in fiamme e gli aeroplani abbattuti in Russia. Il terzo 11 settembre del mondo, quello ceceno, è passato nel ricordo ancora fresco delle bombe sui treni di Madrid e dei loro duecento morti, l’11 marzo del 2004. L’11 settembre dell’Europa.
In Israele nemmeno i più ottimisti intravedono il minimo spiraglio di pace. In Russia e in tutta la regione del Caucaso non c’è una sola ragione per essere ottimisti nemmeno a volerla trovare per partito preso. In Afghanistan tornano i talebani. In Iraq e in tutto il mondo arabo la situazione è sotto gli occhi di tutti per quella che è. Non bella.
Prima, durante e dopo l’11 settembre, fino alla decisione di invadere l’Iraq, il quadro era assai diverso. Dopo l’attacco alle Torri gemelle, la coalizione formatasi contro l’Afghanistan dei talebani, di Bin Laden e del mullah Omar aveva l’appoggio della quasi totalità dei paesi arabi, dell’Europa e dell’occidente. In altre parole, il mondo intero a parte Iraq, Iran, Qatar, Gino Strada e pochi altri. Oggi la coalizione non sembra in condizioni smaglianti e le sue file si sono alquanto assottigliate. Dal momento in cui ogni argomento sostenuto dai fautori della guerra in Iraq e contestato dai suoi oppositori si è rivelato falso (il nesso tra il regime di Saddam e Al Qaeda, le armi di distruzione di massa, il coinvolgimento nell’11 settembre) rigettare la responsabilità della crisi sul “tradimento” dell’Europa appare perlomeno bizzarro.
Così fa però il Foglio di Giuliano Ferrara, unico quotidiano italiano da sempre e coerentemente schierato per la guerra. I neocon italiani scrivono con penna marziale che “non stiamo perdendo, stiamo combattendo”. Ricordano che prima eravamo arrendevoli e imbelli, poi fu l’11 settembre. “Mai più”, concludono. Anche noi consideriamo l’11 settembre una data discriminante. Ma se il loro nome è “mai più”, visto il bilancio di questi anni e della strategia seguita sin qui, il nostro è “mo’ basta”.