Come tutti coloro che sono andati a vederlo, anche noi siamo entrati al cinema con un’opinione già perfettamente definita su Fahrenheit 9/11 e così la riportiamo dopo averlo visto. Prima di esporla, però, occorre una premessa: Fahrenheit 9/11 non è un film. E non è nemmeno un documentario. Ben al di là delle intenzioni dell’autore, che puntava dichiaratamente a farne uno strumento di propaganda, Fahrenheit 9/11 è un fatto politico. Non a caso non si è data in tutto il mondo ricezione – e recensione – del film che contrastasse anche solo in minima parte con lo schieramento di appartenenza: in Francia e in Spagna, per fare solo due esempi, è stato un trionfo; in America come in Italia è stato attaccato con un’asprezza e un impegno vicini al parossismo dai sostenitori di Bush, criticato dalla sinistra liberal ed esaltato dalla sinistra radicale. A Cannes ha vinto la Palma d’Oro meno meritata di tutta la pur controversa storia del Festival.
La meno meritata (eccettuato forse solo qualche indigeribile polpettone coreano degli anni Novanta) se si trattasse di un film e se fosse stato giudicato con i criteri di una normale critica cinematografica. Ma il motivo di un simile riconoscimento sta tutto in quella chiave geopolitica della sua ricezione che abbiamo appena accennato. Perché, se fosse un film, Fahrenheit 9/11 sarebbe senz’ombra di dubbio un prodotto estremamente mediocre, con punte autenticamente trash. Basta pensare ai continui sketch sulle gaffe del presidente Bush, giustamente accostati ai filmati di Striscia la notizia. Questo era quello che ci aspettavamo quando siamo entrati nel cinema e questo è quello che abbiamo visto: uno spettacolo lungo, confuso e approssimativo. Insopportabilmente demagogico quando vorrebbe commuovere, puerile quando vorrebbe far ridere, semplicemente idiota quando vorrebbe far riflettere. Eppure tutta la prima parte, finché parla effettivamente dell’11 settembre, non è affatto male.
Dalla scelta di raccontare l’orrore senza mostrarlo, facendo scomparire ogni immagine e lasciando soltanto il sonoro, alle immagini del cielo sopra New Work e ai milioni di documenti trasformati in coriandoli inceneriti, ai mille volti sconvolti e ai loro occhi vitrei, tutti fissi verso un unico punto, in alto, che allo spettatore non viene mostrato mai. Né il film è meno convincente, in questa parte, sul piano politico. E lascia davvero indignati il seguito ottenuto da una campagna forsennata che ha dipinto Michael Moore come un bugiardo patologico e Fahrenheit 9/11 come una gigantesca montatura. La maggior parte delle critiche si è rivolta verso l’affermazione, contenuta nel film e sostanzialmente falsa, che un aereo carico di sauditi e membri della famiglia Bin Laden abbia lasciato il paese quando lo spazio aereo era ancora chiuso e senza che nessuno venisse nemmeno interrogato. Lascia indignati osservare come tanti commentatori che non hanno battuto ciglio nello scoprire fasulli i dossier sulle armi di distruzione di massa, nel verificare come autentiche balle tutte le ragioni e tutti i discorsi con cui essi stessi hanno giustificato una guerra – una guerra, non una scampagnata – si adontino perché l’aereo lasciato partire dagli Stati Uniti si alzò in volo il 20 piuttosto che il 14 o il 15 settembre. Lascia indignati che dopo aver visto crollare l’enorme quantità di menzogne da essi stessi spacciate per giustificare la guerra e dopo avere stabilito che il vero argomento non era la distruzione delle armi di Saddam ma la fine del suo regime sanguinario, gli stessi commentatori non battano ciglio di fronte alla denuncia degli strettissimi rapporti d’affari del clan Bush con i sauditi, responsabili di un regime forse persino peggiore di quello saddamita, limitandosi a osservare che è roba vecchia e stranota.
Singolare obiezione, ma attendiamo fiduciosi che dopo avere compulsato orari di volo e liste d’imbarco, vogliano pronunciare una sillaba anche sulle relazioni intrattenute dalla famiglia e dall’Amministrazione Bush con personaggi assai più compromessi di quelli sbattuti a Guantanamo con assai minori complimenti. Attendiamo fiduciosi, ma nel frattempo, fossimo stati nella giuria di Cannes, non avremmo esitato a dare la Palma d’Oro a questo bruttissimo film, pieno di imprecisioni e di sciocchezze. Per colpire un elefante a un metro di distanza, in fondo, non servono né un fucile di precisione né una mira infallibile. Basta saper distinguere un elefante da una bufala.