Si può difendere l’astrattezza? Per il mio vecchio Zanichelli, è astratto “ciò che non ha concreti rapporti con la realtà”, e poiché concreto è proprio (sempre per il mio squinternato Zanichelli) ciò che i rapporti con la realtà ce li ha, si capisce che, con quei “concreti rapporti”, il compilatore voleva essere persino troppo zelante nel prendersela con la deprecabile astrattezza. Anche nella sfera più rarefatta del pensiero l’astratto gode di pessima reputazione: non c’è pensatore che non rivendichi per sé la più concreta delle concretezze, e non riversi sugli altri (di solito: su tutti gli altri), l’accusa di astrattezza. Né è per caso che il più robusto filosofo del ‘900 italiano, Gentile, abbia preteso di riformare la dialettica hegeliana secondo il ritmo della contrapposizione tra pensiero astratto (da buttare) e pensiero concreto (da coltivare).
Perché allora una difesa? Ma per rintuzzare l’appello che con apocalittici squilli di tromba s’ode a destra (e a sinistra, manco a dirlo, risponde uno squillo) – appello a mettere da parte, o perlomeno a non esagerare, l’importanza di forme, metodi, procedure, diritti (che per ciò stesso scadono immediatamente a formalismi, proceduralismi, giuridicismi e giuridificazioni, e altri astrattissimi ismi) per badare piuttosto alla sostanza delle cose. E quale sia questa sostanza, si capisce da ciò che è messo sotto accusa. Catalogando alla buona: l’arida scienza, la tecnica invadente, il leguleio diritto, la pavida democrazia. Il timbro di fondo dell’esperienza politica novecentesca sembra così tornare a farsi sentire e, a dispetto della fortunata formula del secolo breve, c’è da temere che la sua ombra si allunghi minacciosamente fino a noi, in forme non poi così inedite. In fondo, siamo ancora al confronto fra Naphta e Settembrini, titanica Kultur e più sbarazzina Zivilisation. Ora, dinanzi a simili epocali problemi è il caso di chiedersi semplicemente cosa tocchi fare, o, se si vuole, quale sia il giardino da coltivare. Infatti: le categorie politiche moderne sono saltate; con esse, sono saltate o traballano le distinzioni fondative dello spazio politico della modernità: pubblico/privato cittadino/borghese; società civile/Stato; diritto/morale morale/tecnica: è sempre più difficile tracciare confini netti e precisi; se traballano queste distinzioni, traballa anche lo spazio democratico della libera discussione pubblica. Se poi quelle non franano del tutto, la democrazia viene comunque sempre più svuotata di qualunque capacità di avere una presa reale e vera e concreta sulle nostre vite. E allora, che si fa? Di solito, questi discorsi si accompagnano alla denuncia, di origine foucaultiana (il copyright è suo) della biopolitica, categoria con la quale si prova a interpretare quella nuova, concretissima forma di potere che, saltando ogni mediazione, si legittima, per dir così, alla fonte (cioè in via di fatto): per la forza di disporre delle nostre vite che essa detiene in concreto. Catalogando ancora: ingegneria genetica e ogm, torture mediatiche e conflitti su base etnica o religiosa, minacce sanitarie globali e questione ambientale, sempre più ne va direttamente della vita stessa, nuda e senza difese. Con tutto ciò, però, siamo ancora sul piano della diagnosi, che è quella stilata da un importante filone del pensiero politico contemporaneo (in Italia, esso va da Giorgio Agamben a Roberto Esposito, di cui è appena uscito, presso Einaudi, Bios; sottotitolo: biopolitica e filosofia). Ripetiamo, dunque: che si fa? Davvero si crede di salvare capre e cavoli tenendosi la forma democratica ma inoculandovi sostanza, contenuti di vita concreti presi altrove? E da dove poi li si prenderebbero, questi contenuti? Ed è mai possibile che non si veda il pericolo? Poiché infatti, se si vuole una democrazia che abbia finalmente e realmente “presa” sulle nostre vite, invece di essere un astratto guscio vuoto, tutto potrà criticarsi, meno l’idea (pericolosa quant’altre mai) che tocchi alla politica prendere le nostre vite. Ma questo è proprio il plesso che la biopolitica vorrebbe smascherare! E dunque: non sarà che è proprio l’ansia di verità e autenticità e concretezza che sempre accompagna questi smascheramenti a gettarci nel pericolo? E se la verità asservisse, invece di liberare? La democrazia è un’astratta, formalistica finzione, si dice (quella parlamentare, perché quella diretta, con il suo bravo carico di violenza originaria, potrebbe pure andare). Ma se, proprio in quanto astratta finzione, mera apparenza, se proprio grazie al suo debole statuto ontologico fosse non assolutamente falsa, come si va molto pensosamente cogitando, ma abbastanza vera? E vera abbastanza, aggiungo, da evitare che in cerca della verità cui ancorare il politico, si finisca diritti e filati fuori del consorzio civile. Consorzio mediocre e ipocrita, certo, ma distante abbastanza dal disvelamento di quella verità, il cui sacro e bimillenario fuoco ha forse già bruciato troppo. (Troppi uomini, intendo).