Siate franchi: voi che leggete, fate forse parte dei “reperti del museo sovietico dell’ateismo”? Siete – o siete stati – “profeti tonitruanti del laicismo neorisorgimentale”? Siete mica tra quanti, malati di “ideologismo”, non si curano della “distinzione fra morale e legge” e bocciano allegramente Buttiglione? E magari, già che ci siete, date pure “un’interpretazione relativista e indifferenziata del senso e del valore delle religioni”? Siete forse “laicisti oltranzisti”? Dio mio, non è che coltivate anche “il pregiudizio progressista un po’ stupido” per il quale quel che viene dopo è sempre meglio di quel che viene prima? Non è che vi manca, non sia mai, “una certa definizione di ciò che è «bene» come adeguamento dell’intelletto alla cosa”? Non crederete mica che “il criterio per giudicare del meglio e del peggio possa essere semplicemente numerico e spaziale”? E, ditemi: avete in animo (vigliacchi!) di rinunziare alla parola “peccato” in politica? Parteggiate, Dio ce ne scampi, per “il numero nichilista” e avete, horribile dictu, una “visione dei diritti indifferenziata”? Ma allora siete di quelli che vogliono – confessatelo! – “intervenire a piacimento sulla vita”? Volete insomma “spogliarvi della vostra umanità”? Se sì, se avete di queste sfrontatezze, la lettura della risposta di Ferrara a Claudia Mancina (Il Foglio, 22-24 ottobre, da cui cito), vi annienterà. Anche se vi sembrerà che ce ne voglia, di disinvoltura, per affermare che escludendo dalla politica la parola peccato non resterà che “un liberalismo privo di basi e di contraddizione, un orripilante conformismo”: non penserete mica di cavarvela così facilmente? Qui ci vogliono argomenti.
Cerchiamo, intanto, quelli di Ferrara, sparpagliati tra ricordi personali e lezioni di vita e preti burberi ma intelligenti. Ferrara comincia con la difesa del filosofo gallipolino Buttiglione, e rivendica (lasciamo stare se a proposito o no) la fondamentale distinzione liberale tra “morale e legge, etica e diritto”. Giusto, anzi: sacrosanto. Però poi, preso da “febbrile scrittura a flusso”, rimpinza le povere leggi di un po’ di tutto: non solo morale, ma anche storia e religione e forti identità e radici cristiane. Sicché la distinzione liberale ne esce piuttosto malconcia, a dir poco. Ma la religione ci vuole, continua Ferrara: qualcosa che leghi, “un’identità vera e profonda” (come dicono pure gli ultras del calcio). Addio allora Grozio e il diritto etsi Deus non daretur, addio Bayle e l’illuministica società di atei virtuosi: addio. Ma nell’immane conflitto in corso, pare forse a Ferrara che non si possa combattere se non in nome di Dio? C’è da temerlo. Però, tornando alle argomentazioni, conta o no qualcosa che Ferrara faccia qui ricorso a un argomento puramente esigenziale (quel legame ci vuole, diamine: ce n’è bisogno), argomento di cui l’altro Ferrara, quello che insegna quotidianamente che la politica è “un’arte cinica”, si farebbe sonore beffe? Il fatto è che a Ferrara la ragione tecnica e strumentale della modernità non piace, e lo dice chiaro e tondo: solo che dice pure che scienza, tecnica, mercato, democrazia e diritti individuali o si prendono tutti insieme o non si prendono affatto: la qual cosa, con la prima, confligge non poco. Ma passi anche questo: contro il brutto morbo dell’Occidente, il soggettivismo relativistico, ci vuole la sana ragione “antica, oggettivistica”.
Orbene: primo, quest’altra ragione chi ce l’ha la tiri fuori, una buona volta, invece di invocarla come “pietra filosofale”; secondo, si potrebbe mostrare riga per riga che di una ragione simile (en passant: schiavista, patriarcale e omosessuale) nel Foglio stesso non c’è gran traccia; terzo, ma chi l’ha detto, a Ferrara, che la ragione tecnica e strumentale è “meramente” tecnica e strumentale? Lo sa Ferrara che non sono “meramente” strumentali nemmeno le bretelle che indossa? E com’è che sa smascherare così bene le apocalittiche frottole della sinistra estrema, com’è che non crede affatto a cose tipo la desertificazione della terra, però alla frottola altrettanto estrema della desertificazione dei valori, dello svuotamento di senso del mondo e della vita crede con tutto se stesso? Com’è che gli pare rovinosa “l’abolizione” (esagerato!) della società patrilineare e matrilineare tradizionale? Lo vede Ferrara che dalla sua questa società ha solo il fatto che è “tradizionale”? In ultimo. A spiegare che non si può costruire un diritto né una morale muovendo dalla definizione del bene e del male è stato un severo prussiano, Kant, non uno scapigliato decostruzionista parigino. Può non piacere, ma la cosa sta così. Può tornare comodo chiamare tutto genericamente nichilismo, ma è appunto solo un nome di comodo.
La finiamo qui. Sugli specifici temi in discussione (fecondazione assistita, matrimonio omosessuale) si potrà tornare. Se lo faremo, sarà con tono diverso. Non vorremmo che Ferrara tuonasse contro un’ironia che, si sa, da Socrate in poi è l’empio agente della corruzione morale.