C’era una domanda che mi frullava nella testa da un po’ di tempo a questa parte, e di cui percepivo confusamente l’importanza: “Perché il surf ha già rimpiazzato i vecchi sport?”. Se anche voi ve lo siete a lungo chiesto, sappiate che una risposta, di rilevanza persino ontologica, c’è. Ed è questa: siamo passati dalle vecchie società disciplinari, organizzate secondo differenti ambiti di reclusione – famiglia, scuola, ospedale, fabbrica, caserma, e ovviamente carcere, che di tutti quegli spazi è il modello – alle nuove società di controllo, nelle quali attraverso procedure mobili, fluide, spesso impalpabili, non c’è aspetto delle nostre vite che non sia codificato, regolato, plasmato. In società del genere, in cui gli individui vengono rimodellati di continuo secondo le esigenze del sistema, lo sport prevalente non può che essere il surf, che non a caso si pratica in America, nel più capitalista dei paesi, sulle mobili e fluttuanti onde dell’oceano, in stati di perpetua metastabilità – che è un modo complicato per dire che si riesce a stare sull’onda solo se si è sempre sul punto di capitombolare.
In verità, i vecchi sport non sono stati affatto rimpiazzati dal surf. Si gioca ancora a pallone, si va in bicicletta, si tira di fioretto e si indossano i guantoni. Ma questo è solo un particolare trascurabile. Nella suggestiva descrizione della transizione da un modello di società all’altro, Gilles Deleuze – uno dei maggiori filosofi francesi del XX secolo, sia detto senza ironia – non ha resistito alla tentazione di “far corrispondere a ciascuna società dei tipi di macchine”, e dunque anche, perché no, gli attrezzi sportivi: la tavola del surf, appunto. Allo stesso modo, Toni Negri e Michael Hardt han fatto corrispondere un mucchio di cose, e corrispondenza dopo corrispondenza hanno costruito quel vasto affresco che porta il nome di Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione. Apparso dapprima in America e in Francia, poi in tutto il mondo, il libro ha procurato fama immortale a i suoi autori. Nel 2001 Time menzionò Negri fra i “sette innovatori” dell’annata, e in questi giorni, ampliando la prospettiva, Le Nouvel Observateur saluta l’italiano come le nouveau Marx includendolo fra i pensatori che “rappresentano la coscienza del nostro tempo e i precursori del domani”. Con lui, nella speciale classifica del settimanale, c’è anche Giorgio Agamben, autore di libri importanti e preziosi come Linguaggio e morte, Homo sacer, L’aperto, ma anche filosofi del calibro di Hintikka, Sen, Rorty, Hacking, Sloterdijk.
E allora cerchiamo di capire cos’è l’Impero, per sapere dove va il mondo. E’ facile: l’Impero è una società di controllo totale, in cui tutte le tradizionali distinzioni della modernità, iscritte nell’organizzazione disciplinata degli spazi, sono saltate. Stato e società, guerra e pace, economia e politica, privato e pubblico, centro e periferia, interni ed esteri, teoria e prassi, ordine e crisi: tutte queste distinzioni (e tutte le altre immaginabili) non hanno più senso, e un unico potere imperiale percorre e informa ogni cosa. Cosa significa? Che se per esempio ve ne state con gli amici al bar sport, l’Impero vi raggiunge sin lì: il tifo sportivo è infatti una sua manifestazione; se andate al mare pure, e se al cinema non ne parliamo. Siete controllati, insomma (però subdolamente, inconsciamente, e senza stridore di denti). Se credete che lo Stato resti fuori della porta di casa, vi ingannate, perché si è già accomodato in salotto, e di lì comanda sui vostri gusti e persino, che so, sui vostri scatti di nervi. Se vi pare che il vostro lavoro di concetto vi renda più liberi vi sbagliate della grossa, perché anzi l’Impero sta già colonizzando i vostri pensieri. E tutto torna: avete voglia di immaginare controesempi, situazioni in cui vi par proprio di essere voi e solo voi a decidere che fare della vostra vita: non si scappa. Lo si diceva: corrispondenza dopo corrispondenza, dal tempo libero al lavoro, dagli istituti rappresentativi delle democrazie politiche alla comunicazione, dal sindacato al volontariato, tutto porta le stimmate del nuovo potere. E per essere sicuri, chiamiamolo pure biopotere, fondiamolo cioè sul controllo delle forme stesse di riproduzione e addestramento dei corpi, e che non se ne parli più.
E invece poi se ne parla ancora, perché s’è scherzato. Se infatti perdete la pazienza e decidete di lottare, di rivoltarvi contro l’Impero, allora l’asfissiante controllo della società di controllo si rivela di colpo una bazzecola. Non occorre più dar retta a cinici, realisti, filosofi della crisi: si può fare! La liberazione è a portata di mano. E proprio la liberazione, non una timida e parzialissima emancipazione.
Certo, non è facile raccapezzarsi sulla direzione della lotta. Perché in Impero, nonostante le profezie del futuro, si cede al vecchio vizio del tanto peggio, tanto meglio. Insomma: “Il vero guaio non è la destra, oggi, ma la sinistra” (l’avete già sentita, vero?). Per stare sull’attualità, con un paio di esempietti: uno pensa ingenuamente che, quale che ne sia l’entità, il terrorismo è comunque una minaccia, e scopre invece che è l’arma che l’Impero agita strumentalmente per risolvere i suoi problemucci locali. Uno crede che le ONG possano dare una mano alle popolazioni colpite da disastri colossali, e scopre invece che sono solo utili idioti, che permettono al potere di sciacquarsi la bocca con parole come pace, giustizia o solidarietà. No, il futuro (per ora virtuale) è solo e soltanto della informe moltitudine (se la parola vi inquieta, e vi suona violenta e tumultuosa, è perché siete ancora sotto controllo).
Impero di Michael Hardt e Toni Negri è certamente un libro interessante, ambizioso, sovraccarico, governato dall’urgenza di diagnosticare il presente della globalizzazione su un terreno più profondo di qualunque analisi sociologica, politica o economica. La posta in gioco è più alta: è totale. Ne va dell’essere di ciò che è. Ne va del tutto. Impero sposa uno storicismo assoluto, considera irreversibile la globalizzazione, irride qualunque sentimento nostalgico, si fa bello della tesi che l’Impero non è l’America, perché è ovunque, e però considera alla fine che esso sia solo “un guscio vuoto e un parassita”, una forma meramente reattiva che la potenza della moltitudine può scrollarsi agevolmente di dosso.
Sul piano filosofico, Impero confida di poter ribaltare i negativismi della filosofia contemporanea non solo ammodernando Marx (e rischiandone la caricatura), ma iniettandovi robuste dosi di attivistico vitalismo, apprese da Nietzsche e Bergson (via Deleuze, ça va sans dire). Da Deleuze, Negri e Hardt prendono pure l’odio profondo per la dialettica, il che spiega anche una certa estraneità del discorso di Negri alle espressioni tradizionali della sinistra italiana ed europea. Ma infine, per quanti sforzi Negri faccia, riesce così bene a convincerci che non c’è scampo e che è possibile etero-dirigere l’animale umano, che l’afflato rivoluzionario, il discorso “positivo” sulla effettiva potenza ontologica della moltitudine riesce francamente campato in aria. Esso è affidato a un ragionamento del genere: siccome l’Impero è ovunque e siccome esso vive della gestione sistemica delle crisi che ne punteggiano l’esistenza, in qualunque momento e in qualunque punto come prospera così può fallire. Esplodere. Sicché di punti e momenti concreti non c’è bisogno di indicarne: tutti lo possono essere e nessuno. Ma, così, qualunque obiettivo meno che massimo della sinistra meno che mondiale finisce con l’apparire a Negri meramente velleitario.
Per i due autori, il cosmopolitismo – la risposta illuminista alla globalizzazione – è solo un sogno a occhi aperti. Per noi, il desiderio della moltitudine che “come in una Pentecoste secolare” deve creare (con la necessaria dose di violenza, si immagina) una nuova “specie comune” rischia di rivelarsi un incubo. Sarà tanto meglio, ma intanto è tanto, tanto peggio. Sicché di precorrerlo, questo incubo, nonostante la prestigiosa classifica del settimanale francese, confessiamo francamente di non averne alcuna voglia.