Può un difetto macroscopico della cultura sportiva di un paese tramutarsi, per eterogenesi dei fini, in un pregio? Sì che può. Prendiamo, per esempio, le presentazioni dei percorsi delle due principali corse a tappe del calendario ciclistico internazionale. Il Tour 2005 è stato presentato a Parigi lo scorso 28 ottobre, il Giro 2005 ha visto la luce sabato 22 gennaio a Milano.
Dice: embè?
Continuo: che cosa ci si può aspettare dalla presentazione del Tour? Poco o niente. Il disegno della Grande Boucle è più o meno sempre quello. L’unica discriminante, di solito, è sapere se i corridori gireranno la Francia in senso orario, e allora si avranno prima le Alpi e poi i Pirenei, o antiorario, e allora prima Pirenei e poi Alpi. Il resto è una costante: cronoprologo iniziale, prima settimana piatta per i velocisti, cronosquadre, prima cronometro individuale e primo pacchetto di salite (con serio scossone alla classifica, spesso definitivo e irreversibile), riposo, secondo pacchetto di salite, passerella finale a Parigi.
Solo raramente gli organizzatori francesi ci hanno regalato qualche brivido: di rado un passaggio sul Massiccio Centrale (anche se una salita meravigliosa come il Puy de Dôme sono vent’anni che non si fa), magari una cronoscalata al posto di una crono pianeggiante, talvolta un prologo un po’ più lungo (come quest’anno: diciannove chilometri contro i canonici sei o sette). Roba così.
La filosofia di base dei francesi è che il Tour è il Tour. Che siano gli altri ad adattarsi. Hanno persino l’aria di quelli ai quali non importa nulla che un francese non lo vinca dal 1985 (allora fu Hinault e, incidentalmente, proprio quell’ultima volta che scalarono il Puy de Dôme). Secondo me sotto sotto rosicano come pazzi, ma insomma la dignità è la dignità, la grandeur è la grandeur e non lo danno a vedere.
In Italia è tutto il contrario: l’organizzazione della Gazzetta dello Sport ha sempre disegnato Giri su misura per i campioni di turno, meglio se italiani. Come non ricordare i percorsi piatti e pieni di cronometro degli anni ’70 e ’80, studiati per far vincere Saronni e Moser? O, in tempi più recenti, la trasformazione del Giro nella corsa a tappe più dura e colma di salite, da quando i nostri a cronometro vengono regolarmente battuti dai passistoni foresti, ma sono tra i migliori al mondo quando la strada s’impenna? O, infine, il Giro un po’ insensato dell’anno scorso, con 12 tappe adatte all’arrivo in volata per favorire Petacchi e tappe di montagna mai più lunghe di 140 chilometri per evitare che il summenzionato si ritirasse e non riuscisse a portare a Milano la maglia ciclamino e il “record” storico di vittorie?
Insomma: le ragioni della tradizione al Tour, quelle della tiratura al Giro.
Il fatto è che, a furia di fare così, il Tour ha un po’ stufato, e soprattutto negli ultimi anni ha conosciuto cicli di vittorie (Indurain prima, Armstrong poi) figlie della programmazione e, francamente, micidiali per lo spettacolo. Il Giro, invece, ha mostrato capacità di innovarsi, di mutare pelle, di lanciare personaggi nuovi (anche qui, per eterogenesi dei fini) tipo il Cunego dell’anno passato, e prima il povero e grande Pantani.
Anche quest’anno, per dire: le ultime due settimane si annunciano bellissime, con due cronometro – una da Chieri a Torino di trentuno chilometri e la scalata di Superga – e almeno cinque tappe da brivido finalmente di lunghezza dignitosa (un paio oltre i duecento chilometri), con tre arrivi in salita e soprattutto senza un attimo di respiro. Meraviglioso, e fatto apposta per sfruttare a mo’ di promo l’annunciato nuovo dualismo tra i due giovani virgulti Cunego e Basso.
Per concludere, l’inevitabile pronostico: ci metto la faccia e affermo che, se riesce ad arrivarci in forma Tour 2004, Basso se li magna tutti in un solo boccone. Ho detto.