Nutrita del mito dell’autenticità, dell’ascesa promessa, la serie B può anche essere sublime. E se, sotto l’epidermide della semi-professionalità, dell’immediatezza un po’ rozza e della banale facilità culturale, si aggirano – come vermi nella carne – umori profondi, torve metafore efficaci quanto sguaiate della condizione umana, la serie B può diventare una vocazione.
Non è questione solo sportiva: ogni cultura ha la sua serie B, così come ogni arte; cinema, musica, fumetto, religione, politica. Nessuna di queste citazioni è casuale quando si tratta di quel vero esegeta del minore che risponde al nome di Glen Danzig, poeta dell’anima infernale e del corpo culturista; profeta di una visione del Male laicizzata ma rigorosamente trash nella sua iconografia.
Appassionato di cinema e fumetto horror, recensore cinematografico per sbarcare il lunario, Danzig intraprende una fortunata e alterna carriera solistica dopo lo scioglimento dei Misfits e dopo il parziale insuccesso del suo secondo gruppo, i Samhain. Sono già ben presenti, in lui, il debito e la devozione a una sotto-cultura nutrita di zombie, licantropi, demoni e altre amene presenze; così come la predilezione per la grafica ed il cinema di genere, specialmente quelli degli anni ’50 / ’60. Con i Danzig (in origine, oltre a Glen, il bassista Eerie Von, la seconda chitarra John Christ e l’ex D.O.A. Chuck Biscuits alla batteria), i vecchi ingredienti trovano una nuova miscela, sfornando un sound compatto e corposo, cadenzato ed epico in un’ideale via di mezzo tra Black Sabbath ed estremità Doom. I primi tre album si succedono in crescendo sino all’apice di “Danzig III: How The Gods Kill”, la cui copertina è affidata al morboso “Il Maestro e Margherita” di H. R. Giger (sì, quello-di-Alien: pittore e scultore di grande e particolare talento, autore anche della celebre copertina di “Brain Salad Surgery” di Emerson, Lake and Palmer).
A partire dal successivo “4”, illustrato dal cartoonist Michael W. Kaluta, Glen tenta di modificare il sound senza rinunciare all’immagine: il risultato è interessante, ma poco convincente anche in termini di successo commerciale. Ancora peggiore, però, sarà la sorte di “BlackAcidDevil”, decisa svolta industrial bocciata senza appello da critica e fan: un vero peccato, perché si trattava di una prova non banale, nella quale si intravedeva la possibilità di un nuovo, più originale, percorso musicale.
Ma qui si parla di imperfezione: se Glen aspirava alla serie A, il suo disegno è stato bocciato; in perfetta sintonia con le metafore che ama declamare dal palco – con una voce che, all’occorrenza, resuscita Morrison – ha spiccato il volo ed è caduto. Dunque, non gli resta che ricominciare dai vecchi numeri.
Con la line-up di “Black…” (Joey Castillo alla batteria e Josh Lazie al basso), sforna “6:66 – Satan’s Child” e “I Luciferi”, ritorno alle atmosfere degli esordi con minore epica e un taglio più metallico. Sensazione che si accentua nell’ultimo “Circles Of Snakes”, sorta di summa danzighiana, dal booklet “rubato” alla filmografia di Russ Meyer (genio del B-movie, autore di deliri come “Faster Pussycat… Kill, Kill!”, pellicole a base di bionde ipervitaminizzate) ai testi scarni e ispirati ai soliti temi, fino ai brani che riportano, a tratti, ai livelli di “Danzig III”. Aiutato da una nuova formazione, dove spicca l’ex-chitarrista dei Prong, Tommy Victor, Danzig si ripete rischiando la noia: eppure non delude e trascina fino in fondo, facendo quello che gli riesce meglio, in bilico tra convinzione e auto-ironia. Un coach perfetto, per il girone dell’eterno ritorno.