Le affermazioni di Francesco Rutelli sul declino inevitabile della socialdemocrazia e del welfare state, si prendano nella prima versione circolata o in quella successivamente emendata, sono spiegabili in molti modi. La socialdemocrazia non è solo una famiglia di partiti ma una funzione della modernità, ovvero l’asserzione (un’asserzione incarnatasi in un’organizzazione) che la società moderna è più larga e complessa del capitalismo, e che il capitalismo, qui inteso come diritto a liberamente disporre della proprietà del capitale, tende di per sé a ignorare, o a comprimere, questa complessità. La riforma del capitalismo serve dunque a impedire che esso, limitando troppo le libertà (sia fuori che dentro il mercato!), finisca per non sfruttare completamente le proprie potenzialità dinamiche. Che come è noto sono basate su un gioco paritario fra istituzioni, classi, valori, organizzazioni, diritti. La socialdemocrazia non ritiene infatti che il capitalismo di per sé diverrà mai tanto virtuoso da limitarsi quanto serve alla società moderna. Ecco la differenza culturale: è tipico del liberalismo illuminato ritenere che si possa “civilizzare” il capitalismo semplicemente sul piano etico. Senza bisogno di una dialettica fatta di insediamento, cultura, lotta egemonica. Cioè, appunto, senza bisogno della socialdemocrazia.
La socialdemocrazia ritiene invece che le riforme del capitalismo permettano (con mutevole intensità nella contrapposizione destra-sinistra a seconda dei tempi e dei rapporti di forza) un migliore sfruttamento delle potenzialità di progresso e modernizzazione. Di qui lo stato sociale. Non un mero anelito morale, ma un potenziamento dei diritti e delle capacità individuali (empowerment) esteso alla sfera economica per una maggiore utilità collettiva. Il welfare nasce pertanto da una scommessa utilitaristica tipica della modernità. Ma di tipo inclusivo, cioè collettivo, che è la vera cifra della socialdemocrazia. Ma, si badi, non solo di essa.
Si trascura che spesso, specialmente in Scandinavia, le istituzioni di welfare maggiormente universalistiche sono state edificate grazie anche ai partiti liberal-radicali. A essi, come è tipico dei liberali, premevano diritti basati sulla cittadinanza e non sulla posizione dei salariati nel mercato del lavoro. Certo, i liberali progressisti si trovavano all’interno di coalizioni con ben più grandi partiti socialdemocratici. Ma questa è la storia. E questa è la realtà europea.
Non a caso in Scandinavia la forza dei socialdemocratici e del welfare “massiccio” permane nonostante le molte innovazioni e nonostante il fatto che, come è ovvio, non sempre governino le socialdemocrazie. Molti continuano invece a ritenere, ecco il punto ideologico, che la globalizzazione significhi smantellamento del welfare o morte. E’ falso, e lo dimostrano la capacità di innovazione, la flessibilità, l’alta circolazione delle nuove tecnologie, la competitività degli scandinavi. Dimostrano che un welfare universalistico e inclusivo basato sulla conoscenza è una risorsa insostituibile. A una conferenza svoltasi in aprile alla London University (Rethinking Social Democracy) ho tenuto una relazione su questi temi, e il commento dello studioso britannico John Callaghan è stato giustamente che “secondo certe teorie della globalizzazione con il loro livello di tassazione e di Welfare questi paesi non solo non dovrebbero essere competitivi, ma addirittura scomparire”. Eppure eccoli là. A competere, eccome.
C’è poi un problema sociologico, che attiene all’estrazione e alla carriera politica di Rutelli, che provenendo dalla solidissima e plurigenerazionale borghesia professionale ha potuto fare il politico per decenni senza partiti alle spalle. Non c’è nulla di male, ma nemmeno di universale. La socialdemocrazia, infatti, è nata anche, all’inizio del Novecento, per poter scegliere non solo candidati dell’estrazione di Rutelli, ma dirigenti politici formatisi grazie a un’attività e a risorse (economiche e organizzative) più sistematiche, collettive e partecipate. Cioè, di nuovo, secondo una logica inclusiva. Anche in tal senso (l’insistenza è molesta ma s’impone) la socialdemocrazia rimane una risorsa della democrazia, che diviene pleonastica solo eleggendo la carriera di Rutelli a una sorta vita perfetta del Buddha. Peraltro, l’insediamento rimane una risorsa se sfruttata come fa il Sap svedese, che con una lotteria fra militanti e simpatizzanti copre tra il 30 e il 40% del proprio budget. E lascia ai partiti del centrodestra la preoccupazione di dipendere ossessivamente dai contributi pubblici. Quante cene di finanziamento potrebbe evitarsi Rutelli se studiasse la socialdemocrazia svedese o tedesca. Solo con questo regime nutrizionale Rutelli potrebbe avvicinarsi davvero alla figura del Buddha.