Nell’estate del 2003 Romano Prodi poneva come condizione del suo ritorno alla guida dell’opposizione il costituirsi di una nuova forza unitaria del centrosinistra. Massimo D’Alema rispondeva lanciando la proposta del partito riformista. Dopo il 31,1 per cento raccolto da Uniti nell’Ulivo alle europee, alcuni dei suoi principali leader spiegarono con dovizia di particolari perché quel risultato fosse una sconfitta. Da allora e fino a poche settimane fa, la lista unitaria è stata data per morta, i suoi sostenitori per moribondi e la sola espressione “partito riformista” è divenuta un vero e proprio tabù. Un’espressione, come ha ammonito Rutelli pochi giorni fa, da non pronunciare.
Eppure quel risultato delle europee, al di là dei conti sull’uno o due per cento perso o guadagnato rispetto ai singoli partiti, aveva in sé la forza di una dimostrazione matematica. All’analisi sulla possibilità di unire diversi gruppi dirigenti ormai perfettamente sovrapponibili (il correntone nei ds e Rosy Bindi o i laici radicali alla Dalla Chiesa nella Margherita, i liberal alla Morando da una parte e i riformisti alla Enrico Letta dall’altra), corrispondeva una reale identificazione tra gli elettori. I voti di Ds e Margherita andavano alla lista unitaria e non altrove, certificando così che la necessità di due distinte organizzazioni era venuta meno, perché era venuta meno nel paese. Una posizione che la vittoria automutilata delle europee (con un tipico caso di successo straordinario e non sufficiente) sembra paradossalmente trasformare in un tabù impronunciabile.
Si rende così evidente che la battaglia per superare le naturali e più che legittime resistenze nei diversi partiti non può restare confinata all’interno di un dibattito tra gruppi dirigenti. Si rende necessario un dibattito più largo e al tempo stesso più elitario, che vada oltre le riunioni di funzionari e dirigenti ma non si debba preoccupare di tenere insieme tutto e tutti, potendo svolgersi con la necessaria spregiudicatezza e chiamando le cose con il loro nome. Si rende necessario un dibattito al tempo stesso più alto e più basso, che sposti il fuoco dalle questioni organizzativistiche e politicistiche alla discussione di una nuova cultura politica comune. Offrendo un punto di vista su tutto quello che realmente si muove, appassiona, contribuisce a formare e orientare l’opinione pubblica (e forse è anche la reticenza a porsi su questo terreno che spiega perché, come si chiedeva il giornale che Riformista lo è pure di nome, i riformisti non siano “sexy”). Per queste ragioni, non a caso, poco più di un anno fa abbiamo messo on line il primo numero di Leftwing. Parlando del partito riformista, dei Pearl Jam e di Sex and the City.
Oggi che i titoli dei giornali hanno ampiamente sancito la resurrezione della lista unitaria, con la decisione di presentarla in nove regioni su quindici, il tempo dell’inabissamento dei riformisti sembra dunque finire. Oggi che anche un politico attento come Walter Veltroni per la prima volta interviene al direttivo dei Ds per rilanciare il partito riformista – chiamato per nome e cognome ed esortando a lasciare che siano altri a bandirlo dal vocabolario – è chiaro che il tabù è definitivamente caduto. Speriamo e crediamo che molti altri lo seguiranno in questa coraggiosa, lucida, salutare e sacrosanta operazione di outing riformista.