Il paragone è senz’altro spericolato, ma per alcuni – a Terni – il 2005 è un po’ come il 1944. Quando più di 60 anni fa gli Alleati entrarono in città, i tedeschi avevano smontato e spedito in Germania i migliori macchinari delle acciaierie “Terni”. E adesso, per una strana ironia della storia, la Thyssen-Krupp si porta via un pezzo di fabbrica, quello che produce il lamierino magnetico, un acciaio di qualità, considerato il fiore all’occhiello degli stabilimenti fondati alla fine dell’Ottocento.
Dopo picchetti ai cancelli, blocco di strade e tanto di risoluzione del Parlamento europeo a sostegno della lotta, un accordo i sindacati e la proprietà alla fine lo hanno comunque raggiunto. E prevede – più o meno come aveva chiesto già il 6 gennaio il capo di Ast-Tk Michael Rademacher – la dismissione dei settori giudicati critici («negli ultimi due esercizi commerciali ci sono state perdite per oltre 75 milioni di euro») e la promessa di investire nell’Inox per «evitare che Ast perda l’occasione di rimanere competitiva». Di più, rispetto a gennaio, c’è una cifra solenne su quella promessa – 125 milioni di euro – e l’assicurazione che i 360 operai del magnetico non saranno mandati a casa. Nella dichiarazione di gennaio, in verità, Rademacher parlava anche di aumento dell’occupazione. L’accordo raggiunto ha strappato un impegno nero su bianco: fino al 2009 il numero di operai – 3.100 negli stabilimenti di Terni – non deve diminuire.
Visto come si erano messe le cose, l’intesa soddisfa sindacati e istituzioni locali. Insomma, una vittoria per Terni, se la TK manterrà la parola, ma una sconfitta per l’Italia, pericolosamente esposta all’incrocio dei venti di una ruggente globalizzazione da una parte e una troppo timida politica industriale dall’altra. Si tratta infatti di capire se il “sistema Italia” – neo-colbertismo a parte – giudica positivamente la rinuncia a un settore qualitativamente strategico, tanto che a Terni è sorta ormai da un po’ la facoltà di Ingegneria dei Materiali, legata a doppio filo con Ast per la quale fa ricerca di altissimo livello.
La mancanza di una vera politica industriale non è in realtà una scoperta dell’ultima ora. Le acciaierie di Terni passarono dallo Stato – l’Iri ce le aveva dal 1933 – alla Krupp nel 1994. Una parte se la aggiudicò una cordata di italiani: Agarini, Riva e Falck. Costo dell’operazione 612 miliardi di lire: capannoni, macchinari e quote di mercato. Quando Emilio Riva scese a Terni e parlò di fronte a giornalisti e autorità nella sede della Camera di Commercio fu chiaro: «E’ un bel stabilimento». L’aggettivazione da industriale lombardo tranquillizzò tutti. La speranza era che i tre “italiani” sarebbero rimasti – spontaneamente o in forza di un accordo tacito con Iri e Governo – a presidiare una fabbrica storica e importante, che aveva sfornato rotaie e condotte forzate, parti di navi e pezzi di centrali. Si temeva infatti che i tedeschi, se avessero giudicato più vantaggioso un altro sito, avrebbero piantato tutto lì, infischiandosene delle piazze in subbuglio. I primi ad andarsene invece furono – un anno dopo – proprio gli italiani. Riva, quello del «bel stabilimento», e Falck incassarono rispettivamente 110 e 42 miliardi dall’operazione. Rimase Agarini, non un produttore ma un venditore di acciaio, che resistette qualche anno e poi si defilò anch’egli. Quella privatizzazione, pasticciata e frettolosa, consegnò di fatto uno dei più antichi stabilimenti italiani in mani straniere, poco sensibili ai richiami e alle suggestioni anche viscerali di più di un secolo di storia. Umbra e italiana. Tanto per fare dell’amarcord, se uno scende alla stazione ferroviaria lo capisce subito che Terni è una di quelle città segnate dall’acciaio: nel piazzale davanti hanno messo, alto e possente, il “grande maglio”, un bestione di 12mila tonnellate un tempo attivo negli stabilimenti di Viale Brin. Il centro umbro – dopo l’insediamento della siderurgia – diventa quasi subito una città-fabbrica e le acciaierie prendono a scandire la vita quotidiana di tutti. C’è un vago sapore anglosassone nella Terni della prima metà del ‘900, chiamata non a caso la “Manchester d’Italia”: gli spacci aziendali, il dopolavoro, le case operaie. Ma la storia di Terni è parte della storia del paese, dalla nascita e lo sviluppo dell’industria pesante, indotto in larga parte dallo Stato, allo sforzo della ricostruzione, dopo i pesanti bombardamenti subiti nella 2° guerra mondiale. Per dire, negli anni ’80 anche Giovanni Paolo II si mise l’elmetto, entrò nei reparti e pranzò nel refettorio coi lavoratori.
C’è un film bellissimo di qualche anno fa. Si intitola “Billy Elliot” e parla di un ragazzino che vuole diventare ballerino. Vive in una città dell’Inghilterra del Nord dove stanno chiudendo la miniera e la miniera dà da mangiare praticamente a tutti. Scioperi e scioperi non servono a niente. Alla fine la miniera viene chiusa, ma lui ce la fa.
Terni – dove la tradizione siderurgica è ancora robusta – ha allontanato per 5 anni l’onere di progettare una riconversione totale, ma sarebbe bene capire se l’Italia ha intenzione di aprire una scuola di ballo nei capannoni dove un tempo gli operai lavoravano in canottiera.