Alla Milano-Sanremo i professionisti percorrono i 290 chilometri di gara in un tempo variabile, ma mai inferiore alle sei ore e mezza e spesso superiore alle sette. Ciò che rende affascinante la classicissima d’inizio stagione è che, per le caratteristiche del suo percorso, può essere vinta o gettata al vento in frazioni di secondo. Si tratta di una sorta di poetica ciclistica del moment décisif, nel bene e nel male.
L’anno scorso, per dire: si arrivava allo sprint, il tedesco Zabel (velocista di razza, già vincitore di quattro Sanremo) pareva in giornata di grazia e, benché l’età non fosse più verde, si trovava davanti a tutti, lanciatissimo, a dieci metri dalla linea del traguardo. Che cosa ha fatto? In una frazione di secondo ha deciso di compiere un gesto: sollevarsi dal manubrio e alzare le braccia al cielo. Vuoi mettere la soddisfazione? Vuoi mettere come si viene meglio nelle fotografie che, l’indomani, avrebbero fatto il giro del pianeta? Vuoi mettere il figurone che avrebbe fatto la gigantografia appesa a casa, alle pareti della sala dei trofei? Vuoi mettere la felicità dello sponsor, il cui logo scritto sulla maglia sarebbe rimasto altrimenti invisibile, e che così invece avrebbe goduto di reiterati passaggi sulla stampa e nelle televisioni di tutto il mondo?
Tutto giusto, in teoria, se non ci fosse stato un bastardissimo folletto in agguato lì attaccato alla ruota posteriore del tedesco, lo spagnolo Freire, pronto a sfruttare il suo inevitabile rallentamento, a saltarlo in quegli ultimi dieci metri e a mettere la sua ruota (ben chino sul manubrio, lo spagnolo, e allungato nel colpo di reni) più avanti di cinque, al massimo dieci centimetri. Hai voglia poi a consolarti con le quattro Sanremo già vinte; con le altre gigantografie già appese alle pareti di casa; con il pensiero che lo sponsor, in ogni caso, sarà stato soddisfatto perché il suo logo è stato comunque mostrato. È che, dopo un’esperienza così, ci si deve sentire proprio un po’ coglioni. Tutto per colpa di quel decimo di secondo che al povero Zabel, temo, ritornerà in mente per gli anni a venire, fino all’età della pensione.
Ma anche quest’anno, sempre per dire: si arriva ancora allo sprint, l’italiano Petacchi (velocista di razza, vincitore di innumerevoli tappe al Giro e al Tour) sta benone e sogna di fare sua la classicissima per coronare una carriera fin qui ricca di vittorie, ma ancora priva dell’obiettivo di prestigio assoluto. La sua squadra lavora alla grande per 289 chilometri chiudendo le fughe e impedendo soluzioni diverse dallo sprint. Solo che, poi, tutto il lavoro va a ramengo nel finale: gli uomini che avrebbero dovuto tenere coperto Petacchi e lanciarlo nella volata decisiva si squagliano e non riescono a farsi trovare pronti. Risultato: ai trecento metri dall’arrivo Petacchi è solo, isolato in testa al gruppo, con alle spalle almeno cinque o sei altri velocisti pronti a sfruttare la sua scia e a fargli la festa. Insomma, Sanremo gettata al vento.
Tutto giusto, in teoria, se non fosse che Petacchi, nonostante i 290 chilometri già percorsi, l’acido lattico in giro per tutto il corpo e il soprasella a pezzi, ha fatto una cosa che in genere – a causa di un vetusto luogo comune – non ci si aspetta che un ciclista faccia: in una frazione di secondo Petacchi ha ragionato. Ha rallentato. Ha aspettato che i suoi avversari, sgomenti, frenassero e si allargassero sulla sede stradale, costretti ad uscirgli di ruota per non andargli addosso. Insomma, ha riportato tutto a condizioni di parità. E a quel punto, con tutti quanti al vento, li ha guardati. Si vede bene nel filmato della gara: Petacchi gira la testa a destra e li squadra per un attimo. Infine, ha deciso di ripartire. Un po’ come quando si andava all’oratorio e si giocava al calcio balilla: c’era sempre quello furbo che, sotto di qualche gol, s’inventava di doversene andare e gridava “l’ultima vale tutto”.
Com’è andata a finire? Petacchi, in dieci metri (un po’ gli stessi che mancavano a Zabel) ha dato due biciclette a tutti gli altri, vuoi perché è il velocista più forte del mondo, vuoi perché ripartendo tutti da fermi chi prende l’iniziativa e scatta per primo ha novanta possibilità su cento di vincere. E infatti Petacchi ha vinto. Come accadeva quasi sempre anche al furbone del calcio balilla all’oratorio.
Infine, siccome distruggere un luogo comune sui ciclisti va bene, ma due sarebbero troppi, Petacchi ha detto tra le lacrime all’intervistatrice della Rai che quello era il giorno più bello della sua vita, anzi il secondo, giacché il primo sarà dopo la fine del Giro d’Italia quando sposerà Chiara, in chiesa.