Una cultura vecchia di duemila anni che possiede, come proprio elemento essenziale, la certezza dell’azione provvidenziale di Dio nella storia può permettersi di essere cinica: “Morto un papa se ne fa un altro”. In questi giorni, l’atteggiamento prevalente tra i cattolici che conosco – me compreso – è, di default, un misto di mestizia e serenità: la Chiesa è sopravvissuta alla morte di tutti i suoi grandi santi, è sopravvissuta alla morte di Pietro e Paolo e degli altri apostoli, è sopravvissuta – per dirla tutta – alla morte di Gesù Cristo stesso. Insomma, sopravviverà anche alla scomparsa di Giovanni Paolo II. Tra una ventina di giorni l’afflizione di queste ore si trasformerà, in un istante, nel gaudium magnum che il cardinale Camerlengo annuncerà dalla Loggia di San Pietro.
Tuttavia, la sensazione dei più è che con papa Wojtyla sia scomparso anche un modo irripetibile di proporre il ruolo del successore di Pietro.
Se devo scegliere un punto decisivo per spiegare ciò che mi mancherà, scelgo una frase che Giovanni Paolo II ha ripetuto un’infinità di volte, nelle situazioni più disparate: “Non abbiate paura”. L’idea forte del pontificato appena concluso mi pare essere questa: il cristianesimo (nella forma cattolica, certo, potrebbe un papa pronunciarsi diversamente? Eppure, ho la sensazione che la sottolineatura alla fin fine non sia decisiva) è alcunché di ancora pensabile e, quel che più conta, forma di vita cui è possibile aderire. Da ciò scaturisce la vera umanizzazione dell’uomo. È la promessa che Giovanni Paolo II ha ripetuto in giro per il mondo negli ultimi ventisette anni: l’uomo diventa più uomo, cioè più felice, abbracciando Cristo e “spalancandogli le porte”. Certamente, i passaggi logici dell’argomento possono lasciare perplessi. Tuttavia, ribadisco, è ciò che il papa è andato letteralmente gridando lungo tutto il suo regno.
Il resto, tutto il resto, al confronto pare un insieme di quisquilie, anche se si tratta di quisquilie sulle quali continuamente si torna.
La morale sessuale, ad esempio. Molti commentatori, in questi ultimi giorni, hanno proposto i loro cahiers de doléances sul pontificato, magari in parallelo ai “dieci motivi per cui Karol Wojtyla è stato un grande papa”. In genere, tra le lamentazioni compariva l’inaccettabilità del reiterato giudizio pontificio su omosessualità e contraccezione. A me, tuttavia, pare che la sottolineatura di questi aspetti del magistero di Karol Wojtyla non sia pertinente. Su questi punti il pontefice appena scomparso non ha fatto altro che ribadire la dottrina tradizionale della Chiesa cattolica così come si è configurata nel corso del Novecento. Inoltre, il peso che queste tematiche hanno avuto nel pontificato di Wojtyla è stato minimo. Il papa si è soffermato su di esse in pochi interventi, e pochissime volte con un rilievo decisivo. Non so quale conclusione si debba trarre da ciò. Io, per la mia coscienza di cattolico, ne traggo l’idea che non si tratti dell’essenziale.
Insomma: il cuore di questo pontificato, per come l’ho percepito, è stato ben lontano dall’idea di un cattolicesimo “etico”, fatto di precetti, complicato e tormentato dal senso di colpa. Il suo refrain, “Non abbiate paura”, è ciò che ha smosso nel popolo cattolico, o in quel che ne resta, gli entusiasmi più visibili e concreti, al di là delle facili ironie sui “papaboys”. Io, che fui – faccio outing – un “papaboy” ante litteram dalle parti della fine degli anni ’80, a Santiago di Compostela e a Czestochowa, mi ricordo per quali parole ci si entusiasmava davanti a quell’uomo francamente un po’ stonato (va finalmente detto ora che non c’è più, ristabilendo una verità troppo a lungo taciuta da commentatori eccessivamente compiacenti) e di una simpatia trascinante: nessun moralismo, poca morale, “Non abbiate paura”.
Resta un’ultima questione da chiarire sulla morte del papa: la natura della partecipazione collettiva alla sua agonia. Anche questo tema è stato trattato, perlopiù, con faciloneria. Certo, la sovraesposizione mediatica è stata impressionante e perfino stucchevole, a tratti. Tuttavia, al centro dell’interesse di molti, e mio certamente, per le ultime ore di Giovanni Paolo II c’è stato un fenomeno propriamente religioso. Karol Wojtyla, la cui agonia si è protratta per tre giorni, è stato l’uomo che più di ogni altro, per sua personale convinzione e per il ruolo che ha rivestito, ha incarnato la certezza apparentemente incrollabile circa un’ipotesi radicale proposta alla fede di milioni di persone, compreso il sottoscritto: che cosa accada a noi uomini nel momento della nostra morte. Quanto questa ipotesi sia decisiva nel cattolicesimo, e nel cristianesimo in genere, credo che sia evidente.
Sapere che quell’uomo stava vivendo la suprema ora, un’ora tante volte anticipata da lui nel pensiero e nella preghiera, e da milioni di altri nel modo esatto da lui annunciato, è stata per me un’esperienza estrema. La frase con cui il cardinal Ruini ha descritto l’agonia del papa ancora in corso, “Ormai vede e tocca il Signore”, sarà suonata ai più come una vuota espressione di retorica ecclesiastica. A molti, a me, è suonata come un’enorme speranza. Come una preghiera che così fosse, che così – al di là di tutte le vivide obiezioni del buon senso e della logica – potesse essere per lui. Che così, alla fine, possa essere per ciascuno, e per me.