C’è una legge italiana che regola le attività di comunicazione della pubblica amministrazione (la 150 del 2000). Parla di trasparenza, diritto di informazione dei cittadini, rapporti con la stampa. Tra le figure che a vario titolo si occupano di queste cose c’è il portavoce. Il portavoce – dice l’art. 7 – ha “compiti di diretta collaborazione” con i “vertici” per la cura dei “rapporti politico-istituzionali con gli organi di informazione”. A questa “diretta collaborazione” pensavo quando ho visto gli occhi lucidi di Navarro Valls di fronte ai cronisti di tutto il mondo. Certo, il Vaticano non è una Asl qualunque e il Papa non è un oscuro ministro della Repubblica italiana. Ma, proprio a causa della grandezza dello scenario, ho provato una tenerezza infinita per quel coinvolgimento emotivo. Perché il mestiere del portavoce non è facile. E non si può svolgere sine ira ac studio. Il portavoce deve parlare per. Il portavoce deve sforzarsi di pensare per conto di. Deve conoscere la testa di. Se uno poi ha lavorato con Giovanni Paolo II, immagino che quella “diretta collaborazione” sia diventata molto più che una semplice partecipazione commossa.