Commentando la sconfitta della Casa delle libertà alle regionali, scrivevamo che Silvio Berlusconi poteva “perdere le elezioni senza perdere la testa e fondare la Fed dei conservatori” (vedi qui). Si è dato quindi il caso che Berlusconi in Senato abbia rilanciato il progetto della federazione, ma solo dopo aver perso la testa. Dopo essere andato da Ciampi per dimettersi senza dimettersi affatto, mentre i suoi alleati annunciavano pubblicamente la storica decisione, per poi ripensarci nel giro di ventiquattrore e dimettersi sul serio, mentre i suoi alleati annunciavano pubblicamente che questa volta, prima di chiudere la crisi, avrebbero aspettato di vedere il nuovo governo. Quindi si è presentato al Quirinale con la lista dei ministri assicurando di avere risolto ogni divergenza, per sentirsi dire da Ciampi che uno di quegli stessi ministri gli aveva appena assicurato il contrario (così almeno secondo molte ricostruzioni si spiegherebbe l’ultimo ritardo, con Gasparri deciso a fermare l’ascesa del rivale Storace alla Salute persino telefonando direttamente al Quirinale, ottenendone soltanto la propria sostituzione alle Comunicazioni). Infine, venerdì, il giuramento: più che un governo fotocopia, una brutta copia del precedente governo. A dimostrazione dell’assunto, l’esultanza della Lega e il minaccioso comunicato dell’Udc: “Il confronto avverrà in parlamento”. Unica novità di rilievo è pertanto il ritorno di Giulio Tremonti, stavolta nel ruolo di vicepremier accanto a quello stesso Gianfranco Fini che appena l’estate scorsa ne impose la defenestrazione.
Per cogliere il senso dell’intera operazione occorre dunque partire da lui, Tremonti, unico e solo artefice del cosiddetto asse del nord tra Forza Italia e Lega, cui dedicò tutte le sue energie sin da quando la Casa delle libertà era ancora all’opposizione e il partito di Umberto Bossi il principale imputato della sconfitta (al momento, sia detto per inciso, l’unica grande operazione politica che gli sia mai riuscita). Dopo la vittoria del 2001, Giulio Tremonti ha tradotto quella linea politica in un disegno ambizioso e in un’azione di governo a tutto campo. Di qui la battaglia contro l’integrazione (dalla moneta comune al mandato d’arresto europeo), la riforma fiscale e soprattutto la durissima prova di forza con il Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio dopo gli scandali Cirio e Parmalat. Ma dopo la sconfitta subita dalla Cdl alle elezioni europee del 2004 Tremonti viene sostituito dal tecnico Domenico Siniscalco, la guerra contro Fazio e le grandi banche in difesa dei risparmiatori archiviata, le prerogative del Governatore difese a spada tratta dalla maggioranza – Lega compresa, dopo il benestare di Bankitalia al salvataggio della banca padana Credieuronord – la riforma della legge sul risparmio abbandonata. Ed è significativo che il cavaliere corso in aiuto dell’istituto caro a Umberto Bossi sia quello stesso Giampiero Fiorani che è oggi tra i principali protagonisti della battaglia per il controllo delle banche italiane oggetto di opa da parte di grandi gruppi europei: la madre di tutte le battaglie in cui si sta ridisegnando la mappa del potere reale in Italia, a cui il governo di Silvio Berlusconi sembra assistere da semplice spettatore. Dunque la risposta del governo alla sconfitta delle europee è l’abbandono di Giulio Tremonti e la rapida archiviazione del suo disegno, la resa incondizionata dinanzi ai suoi nemici esterni e il trionfo dei suoi avversari interni, Gianfranco Fini su tutti. Sembra la fine dell’asse del nord, anche se il tentativo di dare la spallata da parte di Marco Follini viene fermato con la rivolta abilmente fomentata da Berlusconi nell’Udc, costringendolo così a entrare nel governo e a sospendere le ostilità. Ed ecco che arriva il risultato delle regionali, ecco che si riapre il processo all’asse del nord e si invoca una svolta su famiglie, imprese e mezzogiorno. Follini restituisce il colpo, esce dal governo e fa scoppiare nuovamente la crisi. Con il ritorno di Tremonti al governo, l’esultanza della Lega e la guerra intestina in An il cerchio si chiude. E il gioco ricomincia, tra partite iva e dipendenti pubblici, tra tagli alle tasse e rigore di bilancio, tra Irpef e Irap, tra europeismo e antieuropeismo, tra nord e sud. Fino al prossimo giro.
L’unica carta che resta in mano a Berlusconi, giunti a questo punto, è se stesso. Se davvero vuole dare uno sbocco politico alla crisi che con tutta evidenza è appena all’inizio, se davvero vuole rilanciare il progetto della filiale italiana del Partito popolare europeo, allora non può fare altro che mettere sul piatto se stesso. La federazione tra Forza Italia, An e almeno una parte dell’Udc può avere qualche attrattiva per i suoi supposti contraenti solo se Berlusconi accetterà di ritagliare per sé, all’interno del nuovo soggetto, il ruolo del presidente fondatore. Un ruolo da regista che lo metta nelle condizioni migliori per preparare la successione alla guida della coalizione nel 2006 e che gli consenta di mantenere una posizione di primo piano nella politica italiana. Un ruolo che gli permetta di guidare la transizione al post-berlusconismo senza essere travolto, prima che dalle truppe nemiche, dai troppi generali che già lo aspettano sulla soglia del bunker.