Portati a una notorietà che oltrepassava i confini del paese d’origine dal successo del precedente lavoro, “Sick Transit Gloria Mundi” (2002), i norvegesi Red Harvest non sono affatto esordienti: formatisi nel 1989, hanno alle spalle una lunga gavetta e una discografia che include due demo, un 7”, due mcd e ben sette full-lenght, incluso “Internal Punishment Programs” pubblicato lo scorso novembre. E’ probabile che il nuovo lavoro consenta alla band di suscitare l’interesse che merita e raccogliere i frutti della devozione dimostrata a un sound particolare; una miscela di death, black e industrial rispettosa dei canoni ma aperta ad altre influenze. L’uso dell’elettronica nelle produzioni più recenti rimanda senza pedisseque riproposizioni agli anni ’80, tra influenze di Joy Division e Depeche Mode perduti in un incubo da altoforno.
In attesa della celebrità, la formazione che dopo un paio di sostituzioni schiera ora Jim Ivan Bergsten (voce, chitarre), Thomas Brandt (basso), Ketil Eggum (chitarre), Lars Sørensen (basso, sampler, synths, voce) e Erik Wroldsen (percussioni), procede per una strada fatta di epici concerti, video contestati – celebre quello di “Wounds”, da “There’s Beauty In The Purity Of Sadness” del 1994, messo al bando in Norvegia ma ripreso da Mtv – e turni di lavoro. Quando non incidono o si esibiscono on stage, i Red Harvest timbrano il cartellino, come nel caso del vocalist Bergsten. Si devono a lui gli effetti udibili nelle canzoni di “I.P.P.”, registrati all’interno della fabbrica dove lavora; fabbrica che, per inciso, produce e vende metallo.
Ossessionati dal metallo; discepoli dell’energia, fisica ed elettrica; affascinati dai paesaggi post-industriali, come quello raffigurato sulla copertina di “I.P.P.”; rigorosi profeti di tecnocratici scenari postmoderni, i Red Harvest riescono a essere tanto monolitici quanto duttili, aggiungendo uno spiccato gusto della sfida, la voglia a ogni lavoro di spingere i limiti un poco più in avanti, in cerca di nuove soluzioni per far progredire quelle vecchie. Apprezzabile, nell’ultimo cd, l’assolo di sitar in “Synthetise My D.n.a.” che conferisce un’improvvisa pastosità che non diminuisce l’intento angosciante del brano. Va ripetuto, qui, che la band è attiva dal 1989, quindi il confronto proposto da alcuni con gruppi affini quali Ministry e Nine Inch Nails è in realtà un parallelo, all’interno del quale ciascuno segue la propria anima. Per i Red Harvest, forgiati anche dalla prediletta esperienza live (nel curriculum tour con Mayhem e Type O Negative) e da un privato parimenti teso al limite (con recenti cure disintossicanti), si tratta senz’altro di un’anima rovente e furiosa come una colata.