Nemmeno un gioco, qualcosa che vale meno di un gioco: un giocattolo. Per la psicologia e la filosofia, l’antropologia e la sociologia, la pedagogia e la politica, l’etologia e la teologia l’importanza del gioco nella formazione dell’uomo non è certo una novità. Al gioco è connessa un’immagine del mondo, un’immagine del tempo, un’immagine del sacro. Anche solo una ricognizione degli usi della lingua dimostrerebbe l’ampiezza dei fenomeni riconducibili sotto un tal comune denominatore: stare al gioco, giocare ed esser giocati, mettere in gioco, avere gioco, scoprire il proprio gioco, vincere o perdere al gioco, giochi linguistici, gioco di sguardi o “è un gioco da ragazzi!”: si potrebbe continuare a lungo. Troveremmo tutto e il contrario di tutto: il ludico e il serio della vita, il facile e il difficile, l’illusione e la collusione, la competizione e l’eccesso, l’apprendimento e lo svago, la libertà e le regole, la finzione, ma anche la verità, poiché nel gioco non si gioca soltanto, ma ci si mette in gioco. E non sono solo gli uomini a giocare, ma anche gli animali e perfino gli dei. E’ vero che per Einstein Dio non gioca a dadi, ma per Eraclito il mondo è il regno di un fanciullo che gioca, e anche a noi a volte viene il dubbio che un dio si prenda gioco dell’uomo.
D’accordo dunque sulla centralità del gioco, ma il giocattolo? Che dire del giocattolo, del balocco? Sta al centro del gioco, benché non tutti i giochi si giochino con i giocattoli, ma ontologicamente parlando non sembra cosa di gran pregio. Anche in questo caso, del resto, il linguaggio sembra darci qualche indicazione: diventare, come si dice, il giocatolo di qualcuno, significa diventarne succubi, esserne lo zimbello, il pupazzo o semplicemente lo strumento. Insomma, non proprio una bella figura. Certo, entrando in un negozio di giocattoli, rimaniamo stupiti dalla varietà di prodotti in vendita. Con un riflesso pavloviano, nella nostra mente si forma il seguente pensiero: “Ai nostri tempi ci si accontentava di molto meno; bastavano un tappo o una biglia, una figurina o un soldatino per giocare. E ci divertivamo anche noi!”. Se a questo pensiero togliamo la falsa retorica del “poveri ma felici”, possiamo cogliervi una piccola verità, poiché non c’è generazione di uomini che non abbia pensato, una volta cresciuta, che i giocattoli con cui è cresciuta erano un’altra cosa. E comunque agghindato, meccanico o elettronico, reale o virtuale, il giocattolo rimane anche oggi solo ciò con cui si gioca. Un mezzo, uno strumento del gioco. E se è vero che l’uomo è quell’animale che gioca con qualunque cosa, il giocattolo è proprio la qualunque cosa con cui giocare.
Ma se il giocattolo è una cosa qualunque (e ci stupiamo ogni volta di come una sciocchezza possa diventare nelle mani di un bambino un tesoro prezioso, che neanche una perfetta replica può sostituire, poiché ciò che il bimbo vuole è quella cosa e proprio e solo quella), se è così: perché diavolo dobbiamo spendere tanti soldi per mettere nelle mani dei nostri figli una cosa qualunque? C’è poi un altro pensiero che si presenta in noi immancabilmente. Siamo entrati nel negozio, abbiamo acquistato il più costoso dei giocattoli, quello che nostro figlio ci aveva chiesto, e non riusciamo a capacitarci di quanto poco duri nelle sue mani, e di come il suo interesse sembri consistere non nel giocarci, ma nello smontarlo e nel farlo a pezzi. Ma anche questo pensiero ha in serbo la sua piccola verità, poiché non è un mero nulla ciò che, come lo specchio in cui si contempla Dioniso bambino, merita di essere fatto a pezzi. Il giocattolo sembra infatti il luogo in cui si incrociano due movimenti: quello grazie al quale una cosa qualunque entra a far parte del mondo di un bambino, e quello col quale un pezzo di mondo (una macchina, una casa, un personaggio) viene miniaturizzato, ridotto a cosa qualunque e buttato via. Da mera, inutile cosa a mondo, e da mondo di nuovo a mera cosa. La povertà ontologica del giocattolo è dunque solo apparente, poiché non di semplice strumento si tratta, ma nientemeno che dell’accesso primario dell’uomo al mondo. Della capacità di “fare mondo”: di fare a pezzi il mondo che c’è, misurandosi con esso, e di inventarne uno nuovo.
E’ di questi giorni l’ennesima denuncia di Greenpeace: alcuni giochi in commercio conterrebbero sostanze chimiche tossiche. La fondatezza di questi allarmi va sempre attentamente verificata. In ogni caso, in tempi nei quali pare che mutazioni antropologiche e catastrofi ontologiche si succedano al ritmo delle stagioni, può essere invece una notizia rassicurante pensare, guardando al modo in cui i nostri bimbi giocano, che forse l’uomo non è mutato al punto che non acceda ancora al mondo per la via dei suoi giocattoli. Guardare ogni tanto non alle ipertecnologiche discontinuità del nostro tempo, dinanzi alle quali l’uomo sarebbe impreparato, ma ad alcune continuità fondamentali, come ad esempio quella di maneggiare giocattoli, è tutto meno che futile, e può anzi restituirci un modo meno ansioso di guardare al mondo. Perché i nostri bambini, lasciati liberi di giocare, tutta questa nostra ansia, per fortuna, non ce l’hanno.