La legge 40 ha superato con scioltezza la prova referendaria. Un ospite ignaro del nostro paese, che guardasse soltanto al risultato della consultazione, lo interpreterebbe presumibilmente come l’espressione di un certo disinteresse verso un tema complesso, lontano dagli interessi reali delle persone, e di una generale disaffezione degli italiani verso la vita pubblica. Se a questo punto l’ospite domandasse quel che si fa in Italia per contrastare il fenomeno, sarebbe perlomeno stupito di apprendere che una larga parte della classe dirigente di questo paese, dai leader politici alle autorità religiose a quelle istituzionali, non solo non contrasta il fenomeno, ma lo incoraggia. Chiede di non votare, e lega la vittoria su un tema che giudica di decisiva importanza morale e civile non alla partecipazione ma all’astensione.
La vittoria dell’astensione è, a ben riflettere, uno stupefacente ossimoro, uno di quei paradossi della politica italiana difficili da spiegare oltre confine, dei quali c’è poco da andar fieri. È vero che da tempo sappiamo che la percentuale dei votanti non è un indice attendibile della salute di una democrazia, ma è triste il giorno in cui una democrazia fa i suoi calcoli e investe risorse culturali, politiche e morali sulla percentuale dei non votanti.
Ma occorre fare un’attenta valutazione anche di altri aspetti del dibattito pubblico, svoltosi in questi mesi di campagna elettorale. In primo luogo, il fatto che tra i difensori della legge non ci sia stato giorno in cui non si sia sentito ripetere che questa legge andava difesa contro la prepotenza o la superficialità di un supposto “pensiero unico” – che poi, al momento del voto, purtroppo non si è manifestato. E’ singolare che chi era forse persino maggioranza nel paese sentisse (e sente tuttora) il bisogno di etichettare come “pensiero unico” l’opinione che nei voti espressi non raggiunge in realtà un terzo dell’elettorato. Segno di un’insicurezza di fondo, di un atteggiamento difensivo e scioccamente ideologico, di una sindrome da accerchiamento per niente beneaugurante, poiché sono di solito insicurezze come queste a motivare le risposte più retrive.
L’altro aspetto notevole, in certi casi persino caricaturale, è stato il rifiuto di distinguere. Non c’è stato dibattito (e dibattiti non ce ne sono stati molti, in verità) in cui i sostenitori della legge 40 non abbiano prima o poi saltato il merito dei singoli quesiti della legge, respinto le presunte sottigliezze, tagliato corto con le argomentazioni, e invitato tutti ad andare al dunque, a badare al sodo, e a pronunciarsi sui principi. Chiunque mastica un po’ di filosofia sa che i principi, fuor di qualunque contesto, fuor di qualunque interpretazione, fuor di qualunque specificazione delle condizioni della loro applicazione, non dicono nulla. Ma tutti questi sono apparsi come fastidiosi cavilli intellettuali degni di un azzeccagarbugli, cui contrapporre invece un robusto senso di realtà e una sana morale naturale – pazienza se poi, nei fatti, la legge 40 sia del tutto irrealistica (per come immagina di poter fermare la ricerca scientifica e per quanto ignora quel che all’estero comunque si farà) e quanto alla morale naturale, pazienza se nei comportamenti individuali privati essa sia sempre più disattesa.
Quando poi non si fanno più troppe distinzioni, in nome di valori e principi posti così in alto che nessuno può darci un’occhiata e controllare che le cose stiano proprio così come le si vuole dare a vedere, non stupisce che istituti di ricerca siano paragonati a campi di concentramento, la crioconservazione degli embrioni a una sorta di ergastolo tecnologico e in generale l’eliminazione di un embrione a un assassinio. Coerenza vorrebbe che dopo l’esito di questo voto si adeguasse la legislazione vigente: non solo la legge 194, ma l’intera sfera del biodiritto e la stessa legislazione penale. Ma il carattere ideologico di questa legge e degli argomenti con i quali è stata sostenuta è dimostrato proprio dall’impossibilità di procedere in tal senso.
Cosa resta, dunque? Difficile a dirsi. Un’Italia un po’ meno laica (e già non lo era molto), un po’ più distante dalla ricerca scientifica, meno giusta con le donne, la cui voce purtroppo non si è sentita abbastanza. Resta un dibattito politico avvelenato dalle furbizie e dalle ingerenze, e un dibattito culturale con poca scienza, pochissima filosofia e molta morale cattolica. C’è chi pensa che l’uomo debba strasene contento al “quia”: non deve nutrire la pretesa di cambiare la natura e il corso delle cose, deve accettare la malattia, sopportare il dolore, non confidare nel futuro, nel progresso e nella scienza; costui se ne sarà stato a casa tutto contento. Chi invece ha votato sì, non è contento e non se ne starà contento. Almeno, è questo che speriamo.