La verità di Alleanza nazionale e del suo segretario era scritta nei manifesti per il decennale della svolta di Fiuggi, appena qualche mese fa, in quelle parole dal tono volutamente solenne eppure inconsciamente remissivo: “Eravamo in pochi a chiamare patria l’Italia, ora siamo la maggioranza”. L’erede designato di Giorgio Almirante, che campeggiava in una bruttissima foto accanto allo slogan, era l’uomo che aveva portato quei pochi nella maggioranza, ma di quella maggioranza egemonizzata da Silvio Berlusconi e dalla Lega restava ben poco da rivendicare ad Alleanza nazionale. E il manifesto comparso nei giorni del massimo scontro all’interno del governo, uno scontro conclusosi ancora una volta con la riaffermazione della leadership di Berlusconi e Bossi, suonava quasi più come la giustificazione della propria resa che come la celebrazione del proprio trionfo: in fondo erano ancora in pochi, ma almeno erano nella maggioranza. E insomma, tutto considerato, poteva andare peggio. O vi siete già dimenticati gli anni del reducismo semiclandestino, gli anni della fogna e del ghetto? Ma il sospetto che la stessa condizione si sia riprodotta all’interno della Casa delle libertà è oramai quasi una certezza.
La svolta di Fiuggi non è dunque bastata. L’infelice esperienza dell’Elefantino con Mario Segni, poi la proposta del voto agli immigrati e il viaggio a Gerusalemme con il riconoscimento al valore dell’antifascismo, da ultimo la scelta di andare a votare e votare tre sì al referendum sulla procreazione assistita sono stati altrettanti tentativi di uscire definitivamente da quella condizione, puntando non più sul partito, ma sulla figura del leader. E proprio su questa scelta, sempre più virulenti, si sono appuntati gli attacchi dall’interno di Alleanza nazionale. Sin dalla riunione storaciana dell’Hilton, in cui l’allora presidente della Regione Lazio ruppe l’antico tabù dell’intoccabilità del capo. Attaccò la condanna del fascismo come male assoluto senza dire una parola sul fascismo, attaccò la proposta di concedere il voto agli immigrati senza mai definirla neppure “sbagliata”, attaccò il sostegno a Israele e al Muro di Sharon sposando la causa dei palestinesi, delle Nazioni Unite e del Papa. Delle scelte del capo attaccò non il merito – su cui si guardò bene dall’esprimersi, onde non farsi isolare nello stereotipo nostalgico e minoritario ma neppure prenderne le distanze – bensì la leggerezza e la subalternità all’avversario, dunque il carattere personalistico. Sullo sfondo, le prime proposte di partito unico e le voci su una possibile lista Fini. Di qui la retorica che non parla ai reduci né a quei pochi che mal si acconciano a essere maggioranza, ma al corpo del partito: il capo gioca per sé, punta a Palazzo Chigi e ha intenzione di abbandonarvi come zavorra lungo la strada; io, invece, voglio arrivarci insieme a voi.
Da allora non è passata poi molta acqua sotto i ponti di Alleanza nazionale, se alla guida della rivolta contro l’ultimo “tradimento” del capo ci sono ancora i due leader della destra sociale, Alemanno e Storace. Sullo sfondo c’è ancora una volta il partito unico, anche se questa volta è Fini a frenare (almeno ufficialmente, almeno per ora) e la scelta referendaria, così traumatica per il suo partito e per il suo elettorato, è fin troppo chiaramente legata alla lotta per la leadership nel dopo Berlusconi. Quale che sia la conformazione della coalizione, in una santa alleanza in nome dei valori cristiani il leader naturale è Pier Ferdinando Casini, l’asse di equilibrio è al centro, l’interlocutore privilegiato non potrebbe che rimanere la Lega. Il destino di Fini incrocia così ancora una volta quello di Francesco Rutelli. I due outsider saliti insieme sulla scena della grande politica alle comunali di Roma del ‘93, sull’onda di Tangentopoli e della ricostruzione di un intero sistema, anticiparono in quello scontro la fisionomia dei due poli che solo nel ’96 avrebbero compiutamente ridefinito il nuovo modello bipolare (quando i due “poli” del centrodestra si sarebbero definitivamente saldati nella Casa delle libertà e la coalizione dei Progressisti si sarebbe alleata con i Popolari). Non a caso anche Rutelli ha scelto il referendum sulla procreazione assistita per lanciare l’ultima sfida per l’egemonia nel centrosinistra. Ma per una curiosa nemesi storica, i due leader che con la loro sfida avevano anticipato la conformazione del bipolarismo italiano si trovano ora alleati nel tentativo di contrastarne il compimento. Oggettivamente alleati, come lo sono Berlusconi e Prodi, perché è evidente che l’affermarsi o il venir meno del progetto unitario in uno dei due schieramenti si rifletterà immediatamente nell’altro campo, come le vicende di questi mesi hanno già ampiamente dimostrato. Anche se questa volta, al momento dell’ultimo e più azzardato rilancio sul tavolo del referendum, Fini e Rutelli hanno puntato su colori diversi.