Il giorno dopo, nel centrosinistra, sarà il giorno più lungo. La sconfitta dei Ds e di tutti i partiti dell’Unione che si erano impegnati per il Sì non è destinata a restare senza conseguenze nei rapporti con Francesco Rutelli. Il leader della Margherita lo sa bene, perché la scelta astensionista non è stata che la terza mossa della sua combinazione.
La prima mossa colpiva sul terreno dei rapporti tra i partiti della federazione e nella sfida per il consenso dell’opinione pubblica, con la decisione di chiedere alla Margherita un pronunciamento ufficiale contro la lista unitaria. La seconda mossa toccava direttamente il leader di un partito alleato e i rapporti con il mondo economico, con l’appoggio a chi nella Confindustria e nel patto di sindacato Rcs si era lanciato contro la sinistra, rea di non ostacolare la scalata al Corriere e le manovre sulle banche (e con trasparenti riferimenti a Massimo D’Alema). La terza mossa, quella sul referendum, veniva intenzionalmente caricata di un forte carattere politico, in aperta contrapposizione agli alleati sul terreno dei valori e della rappresentanza del mondo cattolico, chiudendo così la combinazione destra-sinistra-centro (Confindustria-partiti-Chiesa). Comunque si giudichi la sua strategia, una simile combinazione non può evidentemente essere considerata come una semplice sequenza di espedienti tattici. La sfida di Rutelli è una sfida a tutto campo, che punta apertamente all’egemonia della coalizione.
Del perché il suo ragionamento – a nostro parere – faccia acqua proprio dal lato del partito, non tenendo conto dei suoi gruppi dirigenti e della sua constituency, abbiamo già detto (vedi qui). Ma l’analisi ci convince ancora meno sul piano della coalizione. Perché quella che prefigura per la federazione (e di conseguenza per la coalizione) è un’alleanza a due gambe, da Rutelli esplicitamente teorizzata: il vecchio modello della divisione dei ruoli, del centro che fa il centro e della sinistra che fa la sinistra. Ma il risultato del referendum, con l’esultanza del centrodestra e la spaccatura del centrosinistra, cos’è se non la diretta conseguenza di un simile esperimento? Margherita e Udeur hanno fatto il centro, i Ds e gli altri partiti dell’Unione hanno fatto la sinistra. E la sinistra ha preso gli stessi voti delle ultime regionali. Il 25,9 per cento di affluenza al referendum è calcolato sul 100 per cento degli elettori, mentre le percentuali delle elezioni sono calcolate sul 70 o al massimo l’80 per cento di essi (cioè i votanti). Con un’affluenza all’80 per cento quegli stessi elettori avrebbero dato ai soli partiti del Sì circa il 28 per cento. Con il 70 per cento di votanti, circa il 32. Con una normale affluenza tra 70 e 80 (normale per le politiche, ché per i referendum ormai è un miracolo raggiungere il quorum) siamo ancora una volta di fronte a quel confine del 30 o 34 per cento oltre il quale – da sole – le forze della sinistra italiana non sono mai andate. Nulla di meno, certamente, ma neanche nulla di più.
Per sconfiggere l’astensione non sarebbero bastati Margherita e Udeur. Come mostra infatti anche un’attenta analisi dell’Istituto Cattaneo, sin dal 1999 è tecnicamente impossibile raggiungere il quorum in presenza di una pur piccola minoranza che decida di giocare sull’astensione (vedi qui). La verità, come mostra ancora l’analisi del Cattaneo, è che gli elettori hanno votato secondo le indicazioni dei partiti e della Chiesa. Laddove queste due indicazioni entravano in contraddizione, si sono divisi equamente tra partecipazione e non voto; laddove mancavano entrambe, si sono astenuti.
Dunque non è successo nulla? Al contrario: dunque è successo tutto. Si è avuta la dimostrazione plastica di quello che significa politicamente la divisione dei ruoli nel centrosinistra: l’interdizione reciproca e lo stallo su posizioni sostanzialmente conservatrici. Ogni partito fa appello “ai suoi” e impegna tutto se stesso nel tenere le posizioni acquisite. Il compromesso sociale, economico e politico su cui questo paese si regge – sempre meno – diverrebbe così certamente immodificabile. Il suo declino si farebbe inarrestabile, semplicemente perché non ci sarebbe nessuna forza in campo capace di rompere i mille circoli viziosi su cui si fonda, che sono fatti di interessi concreti e difesi da minoranze agguerrite, nell’uno come nell’altro campo. Quello che è accaduto dimostra la necessità di una forza credibile e capace di parlare a tutti gli italiani, capace di andare oltre i recinti tradizionali e di conquistare al proprio progetto quella larga parte di cittadini che al referendum si è astenuta perché non ha trovato nessuno in grado di parlarle e convincerla, ma alle elezioni politiche a votare ci è sempre andata e ci andrà anche questa volta. Quella larga parte del paese che non fa riferimento e ha dimostrato di non raccogliere appelli di partito e in nome dell’identità – politica, religiosa, culturale – ma che deciderà il proprio voto sulla base dei progetti e della fisionomia che assumeranno le due coalizioni, non certo i singoli partiti di cui abbiamo già visto quanto poco si curi.
Quale sarà dunque la fisionomia del centrosinistra quando nel 2006 si presenterà davanti agli elettori? Questa è la domanda che dobbiamo porci. E’ immaginabile che essa corrisponda a quella uscita dal referendum sulla fecondazione assistita? Evidentemente no. Dinanzi alla decisione della Margherita di correre da sola è naturale che si tenti ogni possibile mediazione, ma il risultato non può certo essere un’unità di facciata per nascondere la frantumazione politica di questi giorni; tantomeno la rinuncia a quel progetto di modernizzazione del paese e di rilancio di una politica riformista che soli possono evitare l’esito che si prospetta dalla vittoria dell’astensione: un ritorno dell’eccezione italiana sul piano politico, culturale e civile, su posizioni persino più arretrate di quelle dell’ultima Democrazia cristiana. Se la Margherita deciderà di proseguire su questa strada, l’unica scelta ragionevole per i partiti della federazione dell’Ulivo non potrà che essere la presentazione di una lista unitaria “con chi ci sta”.
Simili considerazioni certo non sfuggono a Romano Prodi, né a Piero Fassino o a Massimo D’Alema. Il leader della Margherita ha alzato bruscamente la posta in gioco e lo spazio per le mediazioni si è fatto davvero esiguo. Non mancheranno nuovi tentativi di ricucire lo strappo, ma è molto difficile che essi sortiscano alcun effetto. Alla contesa tra gruppi dirigenti, si somma poi lo sconcerto della base: le dimensioni della sconfitta referendaria non possono non acuire l’insofferenza di quanti nel centrosinistra sono andati alle urne e hanno fatto campagna per il Sì. E la loro insofferenza è destinata ad alimentare un clima che in un empito di ottimismo, vogliamo definire soltanto molto freddo.