A metà degli anni novanta, l’esito politico della vicenda di mani pulite e più in generale della crisi dei partiti della prima repubblica comportò uno spostamento massiccio di consensi dal campo delle forze democratiche e progressiste a quello delle forze liberiste e antisistema e in particolare a favore di Forza Italia e della Lega Nord, che insieme raggiunsero la maggioranza assoluta dei consensi. In tutta la Lombardia e soprattutto a Milano gli elettori avvertirono che, sul versante moderato, si venivano determinando cambiamenti profondi tanto di classe dirigente quanto di contenitori partitici mentre, nel campo opposto, tardavano a determinarsi processi reali di cambiamento. Inoltre, gli elettori moderati, laici e cattolici, disconobbero nell’urna l’estremismo giustizialista che dominava a sinistra, anche per la carenza di legittimazione riscontrata nei suoi protagonisti a farsi arbitri della pubblica moralità.
Nel 1997 si celebrò il confronto più aspro, tra chi da un lato si proponeva di attingere al di fuori dei poteri costituiti (Albertini, il piccolo imprenditore metalmeccanico) e l’imprenditore dell’establishment confindustriale (Aldo Fumagalli) debole anzitutto in assolombarda: uno scontro che risentiva negativamente della alleanze sociali ed economiche costruite in ambito nazionale, con l’Ulivo in minoranza in Lombardia ancorché vincente in alcuni collegi grazie alle divisioni della destra.
La prima esperienza di giunta Albertini è stata all’altezza delle aspettative dei suoi elettori, con un mix sapiente di iniziativa sul versante economico (privatizzazioni e ripresa dell’attività edilizia colpita da mani pulite), senza rinunciare a una cospicua dose di demagogia populista, all’insegna dell’efficienza della macchina amministrativa tradotta in dure vertenze contro alcune categorie di dipendenti comunali.
L’elemento rivelatore del successo di quell’esperienza fu dato dal fatto che un pezzo significativo tanto di classe dirigente quanto di ceti popolari della città subì il fascino della diversità del personaggio Albertini, contrastato dai suoi avversari sul terreno improprio, quello ideologico. Va anche riconosciuto che l’anima politica di quell’esperienza si resse sul contributo determinante di tre giovani capaci provenienti dalle migliori scuole di politica, tuttaltro che riconducibili al campo della destra: il cattolico Maurizio Lupi leader dell’area di Cl, promotore del risveglio urbanistico; il laico Luigi Casero, di provenienza repubblicana, abile regista delle intese con il sindacato per dare il via libera alla riorganizzazione del sistema delle aziende comunali; il post comunista Sergio Scalpelli, massimo esponente dell’area liberal della sinistra milanese per almeno un decennio. I primi due sono oggi, non a caso, i due commissari di Forza Italia cui Berlusconi intende affidare la regia della partita Milano 2006.
Con la conclusione della prima giunta Albertini le migliori risorse del centrodestra milanese andarono disperse in parte in favore di impegni romani e in altra parte in favore di un ritorno all’attività professionale. Ma quella dispersione mise in luce i limiti di un’esperienza che traeva profitto dal clima antipolitico dominante in città, clima che volgeva ormai alla fine anche grazie a una forte ripresa di ruolo e di capacità di rappresentanza e di iniziativa di un centrosinistra abilmente guidato, sin dal 2001, da Filippo Penati e da Antonio Panzeri sul terreno più favorevole e solido del riformismo di governo.
Un processo degenerativo del centrodestra negli anni successivi appare in tutta la sua portata proprio al livello del governo comunale: si inaridiscono le linee politiche di fondo, s’indugia in forzature senza fondamento sul piano procedurale amministrativo, si perde capacità di iniziativa nei confronti del tessuto economico e sociale della città, che risente di una forte crisi economica senza che ne sia minimamente condizionato l’operato dell’amministrazione. Manca insomma la testa politica capace di aggiornare la carta di navigazione, correggendo la rotta.
Ma il declino di Albertini non è il declino del centrodestra o quanto meno, a fronte dell’uno, non si assiste a un crollo della forza e della consistenza dei due assi portanti del centrodestra milanese e lombardo e cioè Forza Italia e Lega Nord (che insieme a Milano stanno al 40% e con gli alleati al 52%).
E veniamo all’ultima fase, quella del governo Berlusconi e del declino dell’esperienza di Albertini. Nel primo caso possiamo riconoscere che l’impronta data da Tremonti e Bossi all’azione di governo ha consolidato in Lombardia un blocco di alleanze economiche e sociali, a oggi maggioritario. E la ragione di tale consolidamento sta nel fatto che tanto Tremonti quanto Bossi hanno insistito, ancorché con ricette sbagliate, sui punti nevralgici di crisi della politica, tentando di aggredire il groviglio del malessere lombardo che (con ovvia semplificazione) si traduce nell’insoddisfazione per l’eccesso di risorse drenate all’economia a fronte della scarsità dei servizi resi, anche in termini di welfare e assistenza per i ceti deboli, in parte esclusi dall’attuale modello e quindi talora sensibili a certe sirene.
In tutto questo s’inserisce il cosiddetto modello Formigoni, che -sul presupposto della crisi del berlusconismo – tenta un’operazione assai ambiziosa e cioè quella di spostare sul terreno sociale, e dunque più al centro, la critica al sistema politico ed economico da cui trae comunque alimento il voto alla Casa delle Libertà. Si tratta cioè, per Formigoni, di riconoscere l’esigenza di una redistribuzione di ricchezza secondo un criterio più equo, premiando l’iniziativa volontaria e la capacità d’impresa del popolo lombardo nonché superando la contrapposizione tra liberisti e solidaristi in nome di un mercato sociale che tenta di coniugare equità sociale e spirito d’impresa. Su questo indirizzo, si consolidano scelte politiche che premiano il modello imprenditoriale cooperativo, lanciando segnali anche al campo riformista.
Ma nel farlo, Formigoni si allea con spezzoni del riformismo meneghino (Borghini e Tognoli) e affronta una difficile vertenza con il vertice romano di Forza Italia, che non concede a Formigoni lo spazio che chiede (una lista civica di orientamento riformista) e va a una prova di forza che si protrae sino all’esito delle elezioni regionali. Dalle elezioni esce un quadro politico nel quale si rafforza l’asse Bossi-Tremonti e s’indebolisce l‘opzione formigoniana, che non prende voti dal centrosinistra e non argina l’arretramento complessivo del centrodestra, che pure rimane largamente maggioritario nella regione e significativamente anche a Milano. Nella nuova Giunta regionale sono decisivi i voti della Lega Nord e sono quasi inesistenti, anche simbolicamente, quei caratteri di riformismo che Formigoni intendeva imprimere all’azione di governo.
In conclusione, possiamo riconoscere che il vero uomo forte del centrodestra in Lombardia si chiama oggi Giulio Tremonti e non a caso attorno alla sua figura Berlusconi ritiene di poter ricostruire un blocco d’interessi e di consensi da cui ripartire per la sfida del governo nazionale. Ecco perché, in vista della contesa delle comunali, occorrerà tenere d’occhio assai più l’operato di Giulio Tremonti che non quello della candidata in pectore Letizia Moratti.