8 Convulsions’ ha un sapore differente da ‘Deathshead’, che molti considerano un poco più death metal, mentre ‘The Hollowing’ è più doom. Crediamo che ‘Like Sheep Led To Slaughter’ sia il nostro miglior lavoro in assoluto. Dovete giudicare da soli, dopo averlo ascoltato. Così sarà la VOSTRA opinione”. Così Karin Crisis – leader e vocalist del gruppo che porta il suo nome – rispondeva qualche mese fa alla richiesta di definirne lo stile musicale, in occasione dell’uscita del nuovo lavoro atteso da ben sette anni. “Like Sheep” è la quarta prova in studio del multietnico combo, trasferitosi nel frattempo dall’originaria Grande Mela alla Città degli Angeli; in cerca di casa discografica, di un nuovo batterista e di una full-immersion in quella scena metallica alla quale hanno dato notevole impulso. I Crisis si formano nel 1993, con l’incontro tra Karin e il chitarrista pakistano Afzaal Nasiruddeen, ai quali si aggiungono il bassista taiwanese Gia Chuan Wang e il batterista Fred Waring. Con questa formazione, incidono nel 1994 il grezzo e lacerante esordio “8 Convulsions” che impressiona da subito, non solo per la potenza esecutiva e l’intensità delle composizioni, ma anche per la capacità di sfuggire alle definizioni di genere: parte hardcore, parte metal e doom, il suono dei Crisis attinge alle influenze più disparate, a cominciare da quelle dei rispettivi paesi di origine. Tutti ingredienti di un incantesimo il cui sciamano sfoggia una chioma di trecce lunga oltre la cintura, una voce incredibile e una ricca, versatile personalità artistica: di studi classici – anche valente violinista – Karyn scrive ogni lirica del gruppo e illustra le copertine con cupi e fascinosi dipinti, dalle inquietanti e sanguinolente anatomie. Demone da palcoscenico, la gentile fanciulla è in grado di passare nell’arco del medesimo fraseggio da un dolce sussurrare a un gutturale, impressionante rantolo degno di Max Cavalera; nelle sue stesse parole: “Non ruggisco esattamente come i ragazzi e non ululo come le ragazze, amo mischiare le due cose”.
Con queste coordinate, arriva nel 1996 il capolavoro. “Deathshead Extermination” è brutale, diretto, angosciante e criptico. I testi vagano tra poesia e simbolismo cercando di descrivere l’emozione pura. Sul palco, offrono uno show cui il termine dinamico – usato dalla stessa band – non rende giustizia. Il trittico d’inizio si chiude, l’anno successivo, con “The Hollowing”, tentativo riuscito di non cadere nella “formula”: si aggiunge qui il secondo chitarrista, Jywanza Hobson, più un team di percussionisti scelti per l’occasione.
Quindi, il lungo silenzio. Un’attesa che poteva essere fatale per una band svincolata dai trend e dagli stili del momento e per questo basata sulla spontaneità. Viceversa, reclutato il nuovo batterista titolare Joshua Florian, i Crisis riprendono il discorso da dove l’avevano lasciato, senza ruggine alcuna; ancor più indifferenti al tempo che passa, se non nel sottile sapore di maturazione che s’avverte nel lavoro. Meno provocatorio, più duttile e ricco di sfumature come dimostrano “Omen”, “A Graveyard for Bitches”, “Nomad” e “Corpus Apocalypse”; il suono acquista in spessore e in biologica, torturata fisicità. Non un nuovo capolavoro, ma un disco da ascoltare nei momenti particolari. Nell’intervista già menzionata, Karyn diceva anche: “La nostra musica proviene dalla gioia di fare musica”. E di condurre ogni nota e parola al macello dell’esistenza.