In occidente ha prodotto grande sconcerto il risultato uscito dal turno di ballottaggio delle elezioni presidenziali iraniane, che ha visto la vittoria imprevista di un oscuro candidato conservatore sul “centrista” Rafsanjani. E dopo alcuni momenti di attonito silenzio, è cominciata la gran cassa dei commenti tesi a gettare ombre sui risultati. Ripiombando così nella confusione e nell’impotenza politica prodotta dallo scattare, ancora una volta, del “paradosso democratico” all’occidentale verso i paesi terzi: “Il voto democratico è sacro, basta che votiate come io mi aspetto che votiate”. Delusione, dispetto e sorpresa – accentuati dalla relativa oscurità del vincitore – che hanno prodotto una stizzita campagna di stampa mirata proprio contro la figura del neopresidente, quasi che il problema dell’Iran possa essere riassunto solo nel nome di una persona: prima, le accuse del Washington Times di aver preso parte all’occupazione dell’ambasciata Usa a Teheran nel 1979; poi, una settimana dopo, quella di aver partecipato addirittura all’assassinio politico di un oppositore del regime di etnia curda, Abdul Rahman Ghassemlou, a Vienna nel 1989.
In effetti, la sorpresa è giustificata: nessuno in occidente aveva previsto questo esito delle elezioni presidenziali. L’Economist, tanto per citare il meglio della stampa mondiale, dava per assai probabile una vittoria di Rafsanjani sul candidato degli apparati di sicurezza e dei conservatori più retrivi Muhammad Ghalibaf, anche se aveva ben visto la pochezza del candidato riformista, lo spento Mustafa Moin. Avrebbe dovuto insospettire, in questo senso, la pronta riammissione di quest’ultimo alla competizione presidenziale proprio per mano della Guida Suprema Khamenei, vera eminenza grigia dello schieramento anti-riforme, dopo la sua esclusione dalla contesa durante la campagna elettorale per opera di un organo di controllo in mano a conservatori meno abili e avvertiti. Naturalmente è fin troppo facile travestire analisi ex post da previsioni, e l’Iran è un paese assai complicato. Ma è proprio questo il punto. In occidente c’è chi sostiene che il Medio Oriente sia un posto pieno di problemi perché semplicemente manca da noi la volontà di risolverli piuttosto che la capacità di leggerli: tra questi, i neocon statunitensi e l’attuale amministrazione Usa. Altri, non meno occidentali, hanno da tempo messo in guardia come in realtà ricette semplici non vadano bene per situazioni complesse come quella mediorientale. E dopo il sempre più tragico scenario iracheno, conferme in questo senso vengono adesso dall’Iran.
A ben vedere, infatti, il risultato delle elezioni presidenziali in Iran – dove comunque ha votato più della maggioranza della popolazione a suffragio universale – è stato anche un contraccolpo determinato proprio dalle improvvide politiche Usa nella regione, non ultima l’invasione dell’Iraq. Essa infatti non solo ha completato l’accerchiamento militare dell’Iran – oggi completamente circondato da paesi con truppe Usa sul loro suolo – ma ha anche giocato con una certa avventatezza la carta degli sciiti, puntando su un loro più accentuato ruolo politico che indirettamente non può che rafforzare un regime sciita come quello iraniano.
A ciò si è poi unito un approccio grossolano proprio verso l’Iran, incluso nell’asse del male ma rafforzato dalla continua crescita del prezzo del petrolio. Una grossolanità dovuta a un deficit di conoscenza e analisi: non a caso proprio quel Kenneth Pollack – già direttore dei Gulf Affairs nel National Security Council con Clinton – che con il suo libro Iraq, The Threatening Storm, aveva indicato l’inutilità della tattica del containment verso Saddam Hussein e aveva argomentato in favore dell’intervento, oggi torna in modo più meditato alle sue competenze di origine – era nato come analista della Cia per il Golfo Persico e l’Iran – invitando gli Usa a studiare seriamente l’Iran e a uscire da facili semplificazioni prima di agire, perché “affrontare il problema come è stato fatto con l’Afghanistan e l’Iraq potrebbe rivelarsi un grosso errore”.
E così quando gli effetti dell’intervento in Iraq – accerchiamento dell’Iran e protagonismo degli sciiti – si sono incrociati nel 2004 con la crisi della presidenza riformista di Khatami (peraltro anch’essa poco sostenuta dall’occidente), quel vuoto è stato riempito da qualcun altro.
Sotto l’attenta regia di Khamenei la ricetta è stata il “ritorno alle origini” della rivoluzione khomeinista. Non siamo infatti in presenza di una semplice archiviazione del ciclo riformista e di un ritorno al comando dei ceti che si erano arricchiti durante la normalizzazione dei primi anni Novanta seguita alla fine dell’emergenza e della prima fase della rivoluzione khomeinista, dopo la guerra all’Iraq. Quei ceti, i tecnocrati degli apparati statali e l’alta borghesia delle rendite, non hanno ripreso in mano il boccino del potere. Esso è stato invece accortamente passato da Alì Khamenei a un esponente del sempre più vasto schieramento di coloro – in particolare il clero di Qom – che contro le difficoltà interne ed esterne propugnano un ritorno alla purezza del messaggio di Khomeini: un messaggio che conteneva anche quelle istanze socialisteggianti e populiste che contraddistinguono l’ex sindaco di Teheran, ora presidente. Tali istanze, è bene non dimenticarlo, contenevano però anche un messaggio pansciita, che può tornare utile con il rinnovato protagonismo sciita di oggi. In conclusione, forse la cecità occidentale non avrà contribuito a ricreare quelle condizioni di esportazione mondiale di una rivoluzione sciita imperniata sui mustad’afin (“diseredati”) che fu il programma del khomeinismo originario, fermato dal mondo per mezzo di Saddam Hussein. Ma è facile prevedere una fase di ancora maggiori difficoltà in Iraq e il ridursi degli spazi per l’equidistanza da Teheran scelta finora dal Grande Ayatollah Alì Sistani.