Silvio Berlusconi ha letto l’Elogio della follia, proprio come Miguel de Cervantes, che nel prologo del suo Don Chisciotte esordiva con una celebre excusatio: “Sfaccendato lettore, senza bisogno di giuramenti, mi puoi credere se ti dico che avrei voluto che questo libro, come figlio del pensiero, fosse il più bello, il più vigoroso, il più intelligente che potesse immaginarsi. Ma non ho potuto contravvenire all’ordine di natura…”. Anche noi avremmo voluto che Silvio Berlusconi fosse altri da quel che si è dimostrato in più di dieci anni di onorata carriera politica. Ma nemmeno per il Cavaliere delle tristi figure, che fa le corna al vicino nelle foto dei vertici europei e riesce a far scoppiare un caso diplomatico persino con il presidente finlandese, è possibile andare contro natura. Eppure, per quanto il bilancio del suo governo sia ben peggio che “magro”, come lo ha definito Marco Follini al congresso dell’Udc, ci sono almeno un paio di ragioni per sperare che non sia disarcionato prima del tempo. O per essere più precisi, da altri che non siano gli elettori.
Oggi che la sua parabola politica sembra volgere decisamente al declino, è possibile forse dare atto al presidente del Consiglio dei meriti che gli spettano. Senza la sua discesa in campo, senza la sua spregiudicata decisione di costruire una coalizione che andasse dai missini ai leghisti, probabilmente in Italia il bipolarismo non sarebbe mai nato o sarebbe immediatamente abortito. L’avere immesso nel sistema forze radicali ed estreme, costringendole a confrontarsi con la sfida del governo e ad adeguare la propria cultura politica e la propria azione alla costruzione del consenso e alle regole della democrazia costituisce un merito storico. Indipendentemente dalle alterne fortune che l’esperimento ha avuto: decisamente più riuscito nel caso di An, decisamente meno in quello della Lega. La crisi della prima Repubblica i cui vertici venivano processati in diretta televisiva e in cui tutti o quasi tutti i principali partiti venivano decapitati dalle inchieste giudiziarie in fondo è stata rigenerata anche dall’ingresso “nel Palazzo” di chi in quei giorni agitava i cappi e tirava le monetine. Una rigenerazione trasformistica, forse, se è vero che tra i lanciatori di monetine e gli agitatori di cappi andava al potere l’erede naturale di quel passato e delle sue meno encomiabili pratiche. Ma era comunque una rigenerazione, tanto più necessaria dinanzi al vuoto di potere e di rappresentanza politica provocato dal fallimento di un’intera coalizione di governo. Perché quando non c’è il bipolarismo e le coalizioni di governo si riducono a una sola – giova forse ricordarlo in questi giorni – il loro fallimento non apre la strada all’alternanza, ma alla crisi di sistema.
Silvio Berlusconi ha letto l’elogio della follia e come un folle oggi tesse l’elogio di un partito unico che Marco Follini non ha esitato a bocciare, insieme a tutta intera l’esperienza di quel governo di cui pure fa parte e di cui ha votato tutte le leggi peggiori, nessuna esclusa. Ma il tentativo dei due candidati alternativi alle elezioni del 2006, Berlusconi e Prodi, di consolidare l’unico sistema che abbia reso possibile in Italia il fatto semplice e rivoluzionario che fossero gli elettori a decidere chi dovesse andare al governo e chi all’opposizione, rappresenta una battaglia che vale la pena di combattere sempre e dovunque, nel centrosinistra come nel centrodestra. I tentativi di sabotaggio, con l’aperto appoggio di giornali e circoli di potere da sempre ansiosi di condizionare la politica e di fare le veci del popolo sovrano senza averne ricevuto la delega, meritano dunque di essere combattuti ugualmente, sempre e dovunque. Se necessario, persino in difesa del Cavaliere.