Se Il falò delle vanità di Tom Wolfe è il più grande romanzo realista scritto nella seconda metà del XX secolo, Il capitale umano di Stephen Amidon (Mondadori) è certo tra i migliori scritti nella prima metà del XXI. E non solo perché il XXI secolo è appena cominciato.
Come nel capolavoro di Tom Wolfe, anche qui la trama si compone gradualmente delle diverse voci e dei pensieri di un’ampia galleria di personaggi. Lì New York, centro della grande finanza e crocevia delle più stridenti ingiustizie, in cui al ricco Sherman McCoy basta sbagliare uno svincolo per ritrovarsi nell’inferno di Harlem; qui il grande affresco della vita in una piccola città americana, microcosmo sociale in cui emergono molti di quei tipi caratteristici della stessa società newyorkese descritta da Tom Wolfe: il grande finanziere tutto d’un pezzo, il piccolo rampollo schiacciato dalle aspettative paterne, il giovane ribelle spiantato, l’assistente sociale che ha a che fare ogni giorno con le vittime di un sistema basato sulla competizione sfrenata, il marito fallito eppure disperatamente ansioso di esservi ammesso, nell’Olimpo di quel sistema spietato, in un modo o nell’altro. Lì la grande città, qui la sua provincia. E anche qui, l’evento accidentale destinato a sconvolgere e a intrecciare per sempre i destini dei protagonisti è un incidente d’auto.
Anche qui, la storia ruota attorno al mondo dell’alta finanza. E gli anni Novanta visti dall’interno della grande bolla della New Economy non sembrano poi così diversi dai favolosi anni Ottanta del Falò delle vanità. Anche qui, in pochi si salvano completamente agli occhi del lettore eppure, indagate le motivazioni profonde di ognuno dei personaggi, in pochi possono essere condannati senza attenuanti.
Il centro del romanzo è dunque il problema morale. La condizione tragica del cittadino comune – ricco o povero, aristocratico o parvenu, colto e sensibile oppure rozzo e ignorante – sotto la pressione del condizionamento sociale e disperatamente solo nel momento rivelatore, dinanzi al dilemma posto da ogni scelta etica. Cosa anima e cosa determina il comportamento del singolo individuo, nel momento in cui è chiamato a giocarsi il proprio destino una volta per tutte, mostrando finalmente qual è la sua personale scala delle priorità, quali i suoi autentici valori – non quelli proclamati a cena, ma quelli che determinano le sue scelte in simili momenti – questo è il tema del Capitale umano. La critica o la satira della società americana ne sono lo sfondo, ma il tema – come per il più cinico e cupo romanzo di Tom Wolfe – rimane squisitamente morale. Il vero protagonista non è il mediocre arrampicatore Drew Hagel, così come non è il giornalista Peter Fallow il protagonista del Falò delle vanità. Protagonista è Carrie, la moglie del mago della finanza (come Sherman McCoy è il protagonista del Falò), perché è attraverso la sua parabola che l’intero racconto acquista un senso: dal paradiso della ricchezza facile e della considerazione sociale all’inferno della miseria e del discredito, con l’onta del carcere e lo spettro del fallimento che sembrano inghiottire tutta la sua famiglia e il suo piccolo mondo perfetto, per finire in una sorta di limbo morale e sentimentale. E’ nel suo percorso individuale di moglie ricca e insoddisfatta che le mille voci che compongono la partitura del romanzo assumono un significato. Ma quale sia questo significato, quale sia in ultima analisi il valore del “capitale umano” e quali le conseguenze che Carrie dovrebbe trarne – e quali saranno, dunque, le sue prossime scelte – non lo sapremo mai. Non riusciremo a indovinare quale sia il corso dei suoi pensieri nell’ultima scena del romanzo. Sulla strada che deciderà di prendere una volta posato in terra il pennello con cui si accinge a pitturare la parete di una piccola casa alla periferia della città, dopo aver preso un tè con una ragazza molto più giovane eppure molto più matura di lei, possiamo solo fare delle ipotesi. Possiamo, al massimo, formulare degli auspici. Per il suo bene e per il nostro.