In uno stato laico, la laicità è sempre in discussione (insieme a tutto il resto). Facciamo pure di questa proposizione un assioma, e proviamo ad entrare sine ira ac studio nel dibattito sul concetto di laicità, rilanciato da Giuliano Amato (su Repubblica del 31 agosto) e poi ripreso numerose altre volte qua e là. Sine ira ac studio: occupandoci cioè del concetto, senza domandarci quanto ad esempio sia laico uno stato che adotta un regime concordatario, o i cui insegnanti di religione nelle scuole statali siano scelti dalle diocesi.
In linea di principio, sappiamo tutti che cosa comporta la laicità dello stato: che lo stato si mantiene neutrale e tratta egualmente tutte le opinioni liberamente confessate dai suoi cittadini, purché le opinioni non compromettano lo stato stesso. Se lo stato laico è anche uno stato liberaldemocratico, la conditio si riformula così: purché le opinioni non mettano in discussione i fondamenti liberaldemocratici dello stato stesso. In questa interpretazione minima della laicità dello stato, lo stato rimarrebbe neutrale anche se per esempio la maggioranza dei cittadini italiani adottasse all’improvviso misteriosi ma inoffensivi culti zoroastriani. (Ovviamente, anche in questa interpretazione minima lo stato non può rimanere neutrale rispetto a opinioni che attentino alla sua sicurezza. Diversa questione, che attiene anche alla misura del suo liberalismo, è il modo in cui contrasterebbe simili opinioni).
Vi sono ora due casi principali in cui la conditio deve essere modificata. Nel primo, di tipo tradizionale, uno stato mette tra le proprie condizioni di esistenza una certa identità culturale (o linguistica o religiosa), così da dover intervenire ogni qual volta quell’identità è minacciata. Si dirà allora che lo stato non è laico, cioè neutrale, rispetto a quell’identità. Lo stato italiano, ad esempio, non è neutrale rispetto alla lingua italiana: non tratta tutte le lingue su un piede di parità (benché si preoccupi di tutelare le minoranze linguistiche). Nel secondo caso, radicalmente nuovo, a essere minacciata e a imporre l’abbandono della posizione di neutralità sarebbe non un’identità culturale, linguistica o religiosa, ma addirittura l’identità biologica e antropologica dei suoi cittadini. (Per entrambi i casi, abbiamo fornito un’interpretazione nei termini di quello che Kant chiamava il dovere stretto. Più largamente, invece, uno stato potrebbe ritenere non solo di dover difendere una certa identità culturale o biologica, ma di doverla anche promuovere).
Il secondo caso è di gran lunga il più dirompente. Le possibilità tecniche di incidere sulla vita dell’uomo sono oggi tali, che il caso può e deve porsi. Qui però è decisivo notare che se è perfettamente comprensibile che le religioni siano letteralmente provocate da tali possibilità (ma lo sono anche l’arte e la filosofia), è vero pure che uno stato laico può far sue queste preoccupazioni (e renderle in qualche forma e misura cogenti) solo sotto la conditio di cui sopra, debitamente modificata: solo cioè se ritenesse che l’attentato a un certo modello antropologico o a una certa identità biologica metterebbe in questione l’esistenza stessa dello stato, la vita dei suoi cittadini, i diritti degli esseri umani. Per capirsi: l’identità antropologica viene profondamente modificandosi con l’avvento di una nuova religione, ma non si può considerare laico lo stato che dovesse proibire nuovi culti. Può dunque darsi la circostanza che certi mutamenti minaccino una religione, senza per questo minacciare lo stato. In una simile circostanza, la resistenza a quei mutamenti rientrerebbe al più nel primo caso sopra considerato, non mai nel secondo. Ma se stiamo al primo caso, non c’è alcuna ragione di ritenere che lo stato laico abbia bisogno oggi più di ieri di un supplemento di religione nello spazio pubblico: lungo l’intero corso della storia moderna (che è stata anche una lotta per l’affermazione del concetto di laicità) i difensori del confessionalismo (di ogni genere di confessionalismo) hanno sostenuto che non è possibile una società di atei virtuosi, che per esistere un popolo ha bisogno di elevare altari. Domando dunque ad Amato: ritiene o no che oggi sia possibile (e più o meno di ieri) una società di atei virtuosi?
Resta il secondo caso. Ma, per quel secondo caso, un criterio del tutto laico, ossia la preoccupazione per l’esistenza stessa dello stato, per la vita dei suoi cittadini, per i diritti degli esseri umani, può fornire ottime ragioni la sospensione di un atteggiamento di neutralità: non c’è bisogno, in altre parole, che la religione occupi lo spazio pubblico, per vietare ad esempio la commercializzazione degli organi. E sarebbe auspicabile che quanti ritengano che la religione non possa non occupare sempre più la sfera pubblica indichino perché ci sarebbe bisogno di un fondamento religioso per difendere nelle società liberaldemocratiche contemporanee la dignità della persona umana. Da Socrate a Kant, ciò che è giusto è santo in quanto giusto, e non giusto in quanto santo. E’ in questo modo, e non capovolgendo l’ordine dei rapporti tra etica e religione che uno spazio pubblico condiviso può rimanere aperto.
C’è un ultimo punto sul quale mi vorrei brevemente soffermare. La modernità ha comportato (insieme a molte altre cose) una parziale privatizzazione del fenomeno religioso. Essa stride con la natura stessa della religione, per quanto ci è dato storicamente di sapere. Si può ritenere che questa reclusione sia forzata, ci si può rammaricare, la si può persino maledire; non si può però ritenere che non sia necessaria, e al tempo stesso difendere le ragioni dello stato laico.