Non si può dire che in Medio Oriente questi mesi siano stati noiosi: basti pensare alla vicenda irachena e al tentativo in atto di stabilizzazione politica, al ritiro unilaterale da Gaza delle colonie israeliane, alle recentissime elezioni presidenziali in Egitto. In questa regione così avviene: i processi politici sono in sincrono, sia quando essi sembrano rallentare fino al torpore, sia quando invece accelerano improvvisamente. Il Medio Oriente è infatti una delle regioni al mondo dove l’interdipendenza è più alta. Ciò che appanna però la visione degli analisti – e le conseguenti scelte politiche, come quella dell’Amministrazione Bush in Iraq – è la difficoltà a riconoscere come sia avvenuto un deciso cambiamento nella logica interna del sistema regionale, e a trarne tutte le necessarie conseguenze. Durante la guerra fredda, infatti, il Medio Oriente era una delle principali frontiere del confronto bipolare: reagendo con l’interdipendenza della regione, ciò produceva una logica militare del tipo “a somma zero”, dove se qualcuno vinceva necessariamente qualcun altro perdeva. Passando da un mondo bipolare a un mondo unipolare, privo però della sufficiente forza centripeta, ciò ha prodotto un cambio di logica interna: oggi vige una politica “a somma positiva”, o si vince tutti o si perde tutti.
Questo sembrano aver capito Sharon, Abu Mazen e Mubarak, che infatti hanno agito di concerto tutti questi mesi, in un fronte politico comune contro i propri estremisti interni. Sharon è riuscito così a effettuare uno storico ritiro delle colonie da Gaza in pochissimi giorni a partire dal 17 agosto: ciò ha dimostrato che il movimento dei coloni non è invincibile o più forte dello Stato, in sé una feconda scoperta per la politica israeliana. Tanto forte è stato il colpo, che il rabbino Ovadia Yosef, leader spirituale del partito ultraortodosso sefardita Shas, si è spinto fino a maledire anche Bush, definendo l’uragano Katrina come “una punizione di Dio” per il suo sostegno al ritiro. Ora vedremo come Sharon risolverà il paradosso di essere popolare tra tutto l’elettorato israeliano, ma impopolare tra gli iscritti del proprio partito, dove al prossimo comitato centrale del 25 settembre potrebbe essere formalizzata la sfida di Netanyahu a Sharon per le primarie a leader del Likud. Forse non a caso, proprio in questi giorni di difficoltà di Sharon nel Likud, sono uscite rivelazioni sulla stampa israeliana della possibilità che la morte di Arafat l’11 novembre 2004 possa essere stata causata da un avvelenamento: voci che nella destra israeliana rafforzano politicamente chi ne fosse l’eventuale e smentito responsabile, per esempio il primo ministro dell’epoca (Sharon). Abu Mazen, dal canto suo, quanto più riuscirà a dimostrare di essere in controllo della situazione a Gaza tanto più riuscirà a incassare politicamente il ritiro israeliano. Dunque esiste una partita con Hamas, e una più insidiosa all’interno dell’Autorità palestinese e di Fatah: mentre infatti Hamas sembra aver deciso di spostare la sfida a Fatah dalle strade alle urne elettorali – le elezioni per il parlamento sono ora previste a gennaio – sono proprio le rivalità interne a Fatah a costituire la minaccia più concreta alla stabilità. Tra queste sembra infatti trovarsi il mandante della cruenta uccisione il 7 settembre di Musa Arafat. Così come quello del rapimento del giornalista del Corriere della sera Lorenzo Cremonesi. Mubarak, infine, dopo aver ottenuto da Sharon di rimpolpare oltre le clausole del trattato di pace le proprie forze militari nel Sinai confinante con Gaza, ha poi avuto l’88 per cento dei voti (su un’affluenza del 23) nelle elezioni presidenziali del 7 settembre. Ora Mubarak ha sei anni per affrontare la vera questione della politica egiziana: la sua successione. Egli lavora per suo figlio Gamal, e queste elezioni sono un buon inizio, perché hanno avviato un processo di rilegittimazione. Ancora più importanti saranno le elezioni legislative del prossimo novembre, dove l’affluenza potrebbe crescere.
Sharon, Abu Mazen e Mubarak: tre esempi di leader stagionati ma capaci di intendere il nuovo e la nuova logica politica che con esso avanza. Se invece, come in Iraq, la logica (in questo caso degli Usa) rimane militare e a “somma zero” rispetto al resto della regione, è probabile le difficoltà crescano nel futuro e questa logica si travasi anche all’interno, avviando una vera e propria guerra civile. Delle difficoltà della nuova Costituzione parleremo nelle prossime settimane. All’8 settembre, sono già morti in Iraq 1895 militari Usa, 95 inglesi e 101 della coalizione. Gli attacchi quotidiani si sono stabilizzati per il quarto mese consecutivo sulla preoccupante cifra di 70.