Tutto ha inizio nel 1790 in Alta California: una rivolta di indiani capeggiata da una intrepida fanciulla, un nobile hidalgo al servizio della giustizia, una missione presa d’assalto. A quei tempi Zorro non era ancora nato, ma poco importa perché Isabel Allende la prende decisamente alla lontana nel raccontare le avventure del celebre eroe nel suo Zorro – L’inizio della leggenda, un libro divertente e piacevole, che restituisce il fascino di un genere letterario spesso relegato in quella che viene considerata letteratura di serie b. Ed è proprio per dare nobiltà alla leggenda che il detentore del copyright di Zorro (perché esiste anche il copyright di Zorro) decise di presentarsi un giorno da Isabel Allende chiedendole di raccontare le origini della leggenda. Ne è venuto fuori un bel romanzo di cappa e spada, in cui seguiamo il giovane Diego de la Vega dal momento della nascita, assistiamo alla sua educazione, al crescere impetuoso della sua sete di giustizia, alle sue prime avventure, agli amori e alle delusioni.
Dopo mille avvenimenti che contribuiscono a plasmarne la personalità facendogli fare un mezzo giro del mondo e dopo circa trecentocinquanta pagine, lo lasciamo in California, con un curriculum da eroe appena agli inizi. Ma i personaggi principali della leggenda hanno fatto tutti la loro apparizione, da Moncada a Garcia, da Bernardo a padre Mendoza. Siamo in un momento storico complicato, il mondo è agitato dalle guerre napoleoniche e dalle guerre d’indipendenza nell’America latina; è il mondo dei pirati nei Caraibi e dei viaggi pieni d’insidie tra l’Atlantico e il Pacifico, dell’Inquisizione e delle società segrete. Ogni tanto appare un piccolo affresco: l’incontro in mezzo al mare con la nave dei trafficanti di schiavi; la vita e le usanze di una tribù di gitani; la lunga via del pellegrinaggio verso Santiago.
E i tanti piccoli ritratti dei personaggi minori: Galileo Tempesta, il cuoco prestigiatore; il maestro Escalante, re degli spadaccini dall’aspetto improbabile; Santiago de Leon, nobile capitano della Madre de Dios che disegna carte immaginarie; Amalia, la bella zingare che scruta il futuro.
Ma soprattutto la lunga serie delle città in cui si svolgono le avventure di Zorro. C’è una Los Angeles da poco fondata, un piccolo villaggio di quattro strade e un centinaio di case di bambù. E’ qui che inizia e finisce la storia. E poi ci sono i luoghi incontrati nei viaggi da e verso la Spagna: Portobello, una volta splendente ma a quei tempi già schiacciata dalla crisi, con case cadenti e sterpaglie ovunque; o Cuba, dove Diego si fa preparare il suo completo da Zorro. C’è Barcellona, che “intrappolata tra mare e montagna, non poteva che svilupparsi in altezza”, con le sue case piene di gente, il porto brulicante di mercanti, marinai e topi, le strade strette e pericolose, gli zingari, le prostitute, le truppe dei francesi occupanti e gli spagnoli che organizzano la ribellione. La cosa migliore del libro è proprio l’averci restituito il fascino di quel mondo in impetuosa trasformazione, con le sue mille diversità e contraddizioni e le sue troppe ingiustizie, un mondo scoperto a poco a poco, porto dopo porto, incontro dopo incontro, e popolato di leggende e di miti tanto da non essere poi così diverso da quello disegnato sulle carte immaginarie del capitano Santiago de Leon. Quel mondo in cui l’arrivo in una nuova città era un’esperienza oggi inimmaginabile. Una scoperta improvvisa e sempre nuova, passo dopo passo.
Tra le molte città incontrate, una ha un fascino particolare. “Orgogliosa del suo carattere decadente, avventuriera, amante della vita, duttile e movimentata. sopportava guerre con gli inglesi e con gli indios, uragani, inondazioni, incendi ed epidemie e niente riusciva a deprimere quella superba cortigiana”. Una città in cui la popolazione cosmopolita “conviveva senza badare al caldo, alle zanzare, alle paludi e tanto meno alla legge. Musica, alcol, bordelli, case da gioco, c’era tutto in quelle strade dove la vita iniziava al tramonto”. Una città sempre piena di gente – “neri con ceste d’arance e banane, donne che leggevano il futuro e offrivano feticci vudù, burattinai, ballerine, musicisti. I venditori di dolci, con turbanti e grembiuli azzurri, portavano su vassoi i dolci di zenzero, miele e noci. Sulle bancarelle ambulanti si poteva comprare birra, ostriche fresche, piatti di scampi”. Una città in cui non mancavano mai “ubriachi a dar scandalo, di fianco a gentiluomini dall’aspetto elegante, proprietari di piantagioni, commercianti, funzionari”. E dove “le celebri meticce si pavoneggiavano camminando lentamente, ricevendo i complimenti degli uomini e gli sguardi ostili dei rivali. Non portavano cappelli né gioielli, proibiti per decreto per accontentare le bianche che non potevano competere con loro”. Una città in cui mancavano donne bianche mentre ce n’erano in abbondanza di colore e “non bisognava essere scienziati per trovare la soluzione del problema, ma i matrimoni misti erano proibiti. Così si preservava l’ordine sociale, si garantiva il potere ai bianchi e si manteneva sottomessa la gente di colore, benché ciò non impedisse ai bianchi di avere concubine creole”. Una città che si chiamava New Orleans.