Le cose sono dotate di una vita segreta e perniciosa. Salvo forse alcuni accessori nautici che, a memoria di marinaio bretone, non l’avevano mai aggredito, il mondo delle cose era indubbiamente carico di un’energia tutta concentrata a rompere le palle all’uomo”. Deve essere per non tradire questa tesi (a ben vedere una vera e propria weltanschauung) sostenuta dal protagonista di un suo vecchio libro, che Fred Vargas comincia il suo nuovo romanzo in una cantina buia, dominata da una caldaia regale e tirannica, ovviamente rotta. Il commissario Adamsberg la fissa benevolo, nella speranza che tanto basti a farla ripartire, mentre al piano di sopra l’intero commissariato cerca di proteggersi dal gelo.
Sotto i venti di Nettuno è il quarto romanzo pubblicato in Italia di questa archeologa francese con un finto nome da uomo, che in patria è considerata ormai la regina del giallo. Di libri ne ha scritti molti di più, costruiti intorno a due filoni principali: le avventure di un gruppo di improbabili archeologi che si ritrovano a fare gli investigatori (Chi è morto alzi la mano, Io sono il tenebroso), e quelle che vedono protagonista il Commissario Adamsberg (quello della caldaia). A volte i personaggi si incontrano, come nel bellissimo Parti in fretta e non tornare, trovandosi a collaborare in una Parigi terrorizzata dal ritorno di incubi medievali.
Questa volta Adamsberg si trova a indagare su una misteriosa serie di omicidi commessi in giro per la Francia con un tridente, e lo fa col suo abituale fare svagato, inseguendo le proprie intuizioni, simili “a una razza primitiva di molluschi apodi, senza piedi né zampe, né alto né basso, corpi traslucidi che galleggiano sotto la superficie dell’acqua”. I suoi uomini lo considerano uno “spalatore di nuvole”, ma hanno imparato a rispettarne i metodi che in qualche modo portano sempre alla soluzione dei casi. E lui ha una fiducia cieca nelle sue intuizioni, anche quando sembrano cozzare contro la logica. Quando proprio non sa che pesci pigliare, il commissario cammina, vagando alla ricerca dei pensieri giusti. Ma questa volta la ricerca si fa più complicata: l’assassino obbliga il commissario a uscire dal suo abituale campo d’azione, lo porta via da quella Parigi “antica”, caratterizzata dalle tante piccole storie dei suoi personaggi, dalle brasserie seminascoste, dalle vecchiette che fanno i biscotti e dalle nonne hacker. Ricostruire la verità diventa per Adamsberg una questione privata, e l’indagine un confronto con i propri demoni, con le proprie insicurezze e le proprie paure. La sua proverbiale indifferenza è scossa e il commissario non sa più nemmeno se può fidarsi di se stesso. Non troverete nulla nei libri di Fred Vargas che vi ricordi CSI, niente effetti speciali e tecnologie avvenieristiche.
Anzi, quando i poliziotti del tredicesimo arrondissement sono costretti a un viaggio di formazione in Canada proprio per studiare le nuove tecniche della scentifica locale, si ritrovano sperduti tra i boschi con colleghi che parlano un francese ridicolo e che si affannano a convincere gli abitanti del luogo a fornire gocce di lacrime o fialette di sperma con cui costruire finte scene del delitto per le loro simulazioni. Non sono quelli gli strumenti con cui si risolvono i misteri da queste parti, sembra voler dire Fred Vargas, che appare invece assai più legata ai ferri del suo mestiere di archeologa, a quel metodo indiziario che, per dirla con Andrea Carandini, lega così strettamente l’archeolgo e Sherlock Holmes. La curiosità svogliata di Adamsberg verso gli oggetti più insignificanti è figlia di quella “cultura dei contesti” che ha rivoluzionato le metodologie archeologiche, rendendo un frammento di vaso da cucina spesso ben più importante di una statua di marmo; e quando per arrivare a comprendere lo schema con cui l’assassino sceglie le sue vittime il commissario sarà costretto a individuarne “il peccato originale”, scavando nell’inconscio del killer, quei ferri torneranno utili ancora una volta: proprio Freud era solito paragonare il tentativo di riportare nel conscio il rimosso nascosto nell’inconscio a quello di recuperare ciò che è sepolto nella terra. Ludwig Wittgenstein scriveva a sua volta: “Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose. Lo stato di cose è un nesso di oggetti… Non possiamo capire alcun oggetto fuori dalla possibilità del suo nesso con altri”.
Forse non è un caso se gli archeologi protagonisti dell’altra serie della Vargas fanno tutto fuorché il loro mestiere: stirano, servono nei ristoranti, si ritrovano per caso a fare gli investigatori. Ai loro studi dedicano solo i ritagli di tempo. La Vargas, invece, nei ritagli di tempo scrive. E forse è proprio per questo che ci tiene a dimostrare che, anche quando si dedicano ad altro, degli archeologi ci si può fidare.