Abbiamo messo insieme quattro categorie di influenze: i classici Beatles e Stones; il punk; tutto il periodo cantautoriale e qualsiasi cosa di contemporaneo che valga la pena d’ascoltare”.
Victoria, British Columbia, si trova in Canada. All’anagrafe, gli Hot Hot Heat, formati nel 1999 dal tastierista e cantante Steve Bays con i conterranei Paul Hawley, batteria, e Dustin Hawthorne, basso, sono canadesi. Tutto questo non impedisce che, con felice indisciplina, la band suoni come se provenisse da Manchester. Indifferenti ma non dimentichi di due icone rock indigene quali il pioniere Neil Young e l’animalesco Ted Nugent, i tre si dedicano da subito a un synth-pop di sostenuta leggerezza producendo alcuni ep e il primo full-lenght “Scenes One Throuhg Thirteen”; un sound che, due anni più tardi, in coincidenza con l’ingresso del chitarrista Dante DeCaro, evolve in un indie-rock spiritato che guarda, tra gli altri, ai bizzarri XTC. Con la nuova formazione, incidono per la SubPop l’ep “Knock Knock Knock”; Jack Endino, produttore già con i grezzi Nirvana di “Bleach”, li aiuta a rifinire il secondo lavoro “Make Up The Breakdown” (2002), il cui successo sarà tale da provocare la ristampa immediata del meno fortunato “Scenes…” e creare non solo interesse intorno al gruppo ma anche l’inevitabile effetto attesa per il passo successivo. Il 2002, comunque, si conclude con la firma del contratto per la Warner Bros. e un gigantesco tour mondiale.
A questo punto, con saggezza i quattro scelgono di misurare il passo: confortevolmente confinati in una fattoria a nord della natia Victoria, trascorrono la prima metà del nuovo anno improvvisando lunghe session, dalle quali esce un blocco di ben venticinque nuove canzoni. Selezionate dodici tracce, gli Hot Hot volano a Los Angeles dove li attende questa volta il produttore Dave Sardy (The Walkmen, Jet, Red Hot Chili Peppers). Se la genesi di “Make Up…” era stata vulcanica – si parla addirittura di sei giorni in tutto – “Elevator” costa a Bays e soci un tour de force di quasi un anno, al termine del quale, a registrazioni ancora “calde”, il chitarrista DeCaro decide di lasciare.
L’album esce a Maggio 2005 e ha le stimmate del momento di riflessione che segue al frenetico successo: preceduto dalle interviste in cui i musicisti insistono sulla scelta di cambiare, di non restare fermi, di continuare a divertirsi, “Elevator” vola dispiegando un’unica ala; osa, ma senza spingersi troppo in là; cambia e rientra. Gradevole senz’altro e interessante in alcuni passaggi (l’accoppiata d’apertura “Running Out Of Time / Goodnight Goodnight”; “Pickin’it Up” sostenuta dal synth) guadagna in maturità e pulizia sonora ma perde qualcosa in spontaneità e capacità di trascinare. Quasi tutte le canzoni arrivano a un passo dal “bang” sonoro, mancando il “riff” micidiale – quello che rimane in testa – come se qualcuno, per dispetto, abbassasse il volume.